Il 24 novembre, l’Alta commissione nazionale elettorale libica ha annunciato la lista provvisoria dei candidati ammessi alle elezioni presidenziali: in tutto 73. La commissione ha respinto 25 candidature tra cui quella di Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi, il quale ha tuttavia presentato ricorso contro la decisione: a breve se ne saprà l’esito.
Teoricamente le elezioni alla carica di Presidente della Repubblica in Libia dovrebbero tenersi il 24 dicembre, mentre il mese successivo dovrebbero esserci quelle parlamentari. L’obiettivo è quello di definire il quadro politico e porre fine alle divisioni e alla guerra civile.
Il disastro libico
Dal 2011, ovvero da quando Muammar Gheddafi è stato rovesciato e ucciso, la Libia è in preda al caos. Una guerra civile di tutti contro tutti, con fazioni e milizie impegnate a combattersi in diverse parti del paese e signori della guerra pronti a cambiare alleanze in base alle convenienze del momento.
Inevitabilmente, con una situazione così instabile, le reti criminali e terroristiche hanno prosperato e continuano a prosperare. Non è un caso che fino a qualche anno fa in Libia fosse presente una delle roccaforti dell’ISIS. Ancora oggi cellule dello Stato Islamico continuano ad operare in territorio libico, così come gruppi terroristici e ribelli provenienti dal Ciad e dal Sudan.
Attraverso la Libia e le sue coste resta costantemente attiva una delle principali rotte attraverso cui i migranti illegali dall’Africa giungono in Europa, molti dei quali radicalizzatisi nei campi libici.
Secondo i funzionari del governo di Tripoli, numerosi combattenti dello Stato Islamico (IS) sono giunti nel Vecchio Continente attraverso la rotta del Mediterraneo centrale.
Il conflitto civile libico ha anche determinato problemi all’approvvigionamento petrolifero dell’Europa, che durante il 2020, al culmine dello scontro militare tra il Governo di Accordo Nazionale di Fayez al-Sarraj e il generale Khalifa Haftar, aveva conosciuto addirittura un blocco totale.
Ovviamente è l’Italia il paese che continua a subire le ripercussioni più gravi da questa situazione.
Sul fronte migratorio, ad esempio, il Viminale prevede che almeno 30.000 persone entreranno nel paese entro la fine del 2021. Nel corso di quest’anno l’afflusso di migranti in Italia si è praticamente triplicato rispetto a quello precedente.
Finora nessuno degli accordi stipulati tra il “governo” libico e l’Unione Europea o l’Italia finalizzati al contenimento dell’immigrazione ha davvero funzionato e questo perché le autorità di Tripoli restano ostaggio dei gruppi armati locali, diversi dei quali di matrice islamista, che controllano la città.
Gheddafi 2.0
Fino al 2011 Saif al-Islam era apparso come il più “liberale” tra i figli di Gheddafi, ma di fronte alle prime proteste contro il regime, inaspettatamente, aveva subito assunto una posizione molto dura contro i ribelli. Sin dall’inizio Saif aveva previsto che il rovesciamento del padre avrebbe portato il paese alla guerra civile, al crollo dei confini, alle migrazioni di massa e reso la Libia un rifugio sicuro per i gruppi terroristici.
“La Libia sarà distrutta – affermò – ci vorranno 40 anni per raggiungere un accordo su come gestire il paese, perché tutti vorranno diventare presidente o emiro e assumere il comando”.
La storia gli ha dato ragione.
Oggi, nonostante sulla sua testa penda un mandato della Corte penale internazionale delle Nazioni Unite, Saif al-Islam ha deciso di avanzare la propria candidatura alla presidenza della Libia. Sulla carta è considerato, nonostante tutto, uno dei candidati più forti. Gli analisti occidentali ritengono che goda del sostegno di tre libici su quattro e che sia l’unica personalità davvero in grado di ricostruire l’unità del paese.
Saif non ha preso direttamente parte alla guerra civile, non ha partecipato al tracollo del paese che ha reso la Libia un immenso campo di battaglia. Molti gli riconoscono di essere stato l’unico a prevedere cosa sarebbe accaduto con il rovesciamento del padre.
La sua popolarità potrebbe consentirgli di ricostruire il sistema politico e istituzionale libico, mentre la sua notevole esperienza in ambito diplomatico, con ottime relazioni nei paesi europei, a cominciare dall’Italia, lo renderebbero un interlocutore affidabile. Naturalmente l’eventuale ritorno di un Gheddafi al vertice del paese viene percepito molto negativamente dagli Stati Uniti, che ne subirebbero un colpo di immagine: sarebbe la conferma che l’intervento NATO e la “rivoluzione” libica non furono altro che una inutile e futile aggressione ai danni di uno Stato sovrano e certificherebbe il definitivo fallimento del progetto “primavere arabe”. Insomma un danno di reputazione paragonabile a quello scaturito dal caotico ritiro dall’Afghanistan.
E’ assai probabile che l’ostilità statunitense abbia influito sulla decisione della commissione elettorale di respingere la candidatura di Gheddafi jr. Eppure, se anche il suo ricorso non andasse a buon fine, è indiscutibile che l’intero processo elettorale subirebbe una forte delegittimazione, considerando il consenso che riscuote in questo momento Saif non solo tra i libici in generale, ma soprattutto tra i militari.
Il Consiglio Supremo delle Tribù libiche ha già avvertito che l’esclusione di Saif al-Islam minerebbe il processo di riconciliazione nazionale, sostenendo inoltre che la sua esclusione è opera dei Fratelli Musulmani e degli “agenti del colonialismo”.
E’ evidente che l’erede di Gheddafi avrebbe bisogno di un sostegno esterno per rimanere in pista e fare fronte contro chi gli si oppone. In teoria questa circostanza potrebbe essere un’opportunità per diversi player internazionali, compresa l’Italia. Così come è chiaro che dovrebbe dimostrarsi in grado di acquisire l’alleanza e l’appoggio di altri candidati alla presidenza.
In ogni caso la sua esclusione potrebbe costituire l’ennesimo fattore di destabilizzazione per la Libia.
Altri contendenti
Ma, a parte Saif al-Islam Gheddafi, chi sono i principali candidati alla presidenza della Repubblica libica? Innanzitutto c’è il generale Khalifa Haftar, con un vasto consenso in Cirenaica e nella Libia orientale, che sotto il suo controllo sono riuscite a ripristinare un ordine sul territorio. Un successo che però si accompagna alla disfatta subita nel 2020, quando ha cercato di completare la conquista del paese attaccando la Tripolitania, mancando l’obiettivo a causa dell’intervento militare turco a sostegno del Governo di Accordo Nazionale.
Anche la candidatura di Haftar ha corso il rischio di essere respinta. Il procuratore militare di Tripoli, vicino all’attuale Governo di Unità Nazionale, ne aveva chiesto l’arresto per crimini di guerra, ma una sua esclusione avrebbe inevitabilmente scatenato la reazione delle sue milizie e il definitivo fallimento del processo elettorale. Seppure le elezioni si tenessero ugualmente l’est e il sud del paese non ne riconoscerebbero il risultato senza la partecipazione di Haftar. A quel punto le votazioni servirebbero solo a redistribuire quote di potere a Tripoli.
Meno popolari di Haftar e Saif, ma sostenuti da gruppi potenti sono, poi, l’ex ministro degli Interni Fathi Bashagha, il Presidente della Camera dei Rappresentanti (il Parlamento di Tobruk) Aguila Saleh Issa e l’ex vicepremier libico Ahmed Maitig. Anche l’attuale primo ministro del Governo di Unità Nazionale Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh ha presentato la sua candidatura.
Quest’ultimo ha subito pesanti accuse di clientelismo e corruzione finalizzate proprio a supportare le sue aspirazioni alla presidenza. Dbeibeh avrebbe distribuito generosamente fondi pubblici a destra e a manca per acquisire consenso: tra i provvedimenti più criticati, quello che prevede l’elargizione una tantum di oltre 8.000 dollari agli sposi novelli. Senza contare il fatto che la legge attuale vieta ai membri del Governo di Unità Nazionale di concorrere alla presidenza.
Insomma la legittimità della sua candidatura è a dir poco discutibile. Quella di Haftar, invece, sebbene sostenuta dall’est, si scontra con l’ostilità dei potenti capi delle milizie contro cui ha condotto la sua offensiva lo scorso anno: solo alleandosi con Saif al-Islam potrebbe aggirarla. In effetti, un ticket Haftar/Gheddafi jr. potrebbe essere la migliore soluzione per la Libia: insieme, i due uomini più popolari del paese (stando ai rilevamenti demoscopici degli analisti), potrebbero pacificarlo e ripristinare l’autorità dello Stato.
Un’ipotesi di scenario possibile, però, soltanto se la commissione elettorale li ammetterà entrambi alle consultazioni e se le milizie islamiste non interferiranno nelle elezioni. In caso contrario la deflagrazione del processo di riconciliazione nazionale sarebbe dietro l’angolo.
Inclusione e compromesso
È chiaro che la riconciliazione e la stabilizzazione in Libia, a cui anche l’Europa è interessata, possono essere raggiunte solo attraverso un compromesso che tenga insieme tutti i principali attori in gioco, ad esclusione dei gruppi maggiormente collusi con il radicalismo e il terrorismo.
Naturalmente anche le potenze straniere coinvolte nello scenario dovrebbero fare la loro parte. La domanda è se Parigi e Washington, i principali artefici dieci anni fa del collasso libico, possano effettivamente portare un contributo positivo; così come ci sono seri dubbi sull’atteggiamento di Ankara, che insiste nel voler mantenere proprie truppe nel territorio in base agli accordi stipulati nel 2019 con l’allora governo di Fayez al Sarraj: la verità è che la Turchia ha scarso interesse alla ricostruzione di una Libia sovrana e indipendente. Un interesse nutrito, al contrario, dai paesi vicini: Tunisia, Egitto, Algeria e, soprattutto, dall’Italia e condiviso da Mosca, che vedrebbe di buon grado una stabilizzazione del quadrante mediterraneo. Dipenderà soprattutto dall’impegno di questi paesi se il dialogo intra-libico, nelle prossime settimane, riuscirà ad evitare di approdare ad un punto morto.