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Il ruolo dell’imperialismo turco sullo scacchiere libico

Secondo quanto riportato sul quotidiano online La voce del patriota l’intervento militare in Libia, il sostegno alle milizie islamiste nell’Idlib siriano, i rapporti mai chiariti con l’Isis e le operazioni militari contro i gruppi curdi nel Nord dell’Iraq sono tutti elementi che compongono in questa fase la strategia geopolitica del presidente turco Erdogan in Medio Oriente e in Nord Africa, improntata a una logica sempre più palesemente neo-ottomana, ovvero tesa a ridare al paese una dimensione “imperiale”, riaffermando le propria influenza sui territori un tempo soggetti alla Grande Porta.

I successi militari ottenuti nel corso del mese di giugno dal Governo di Accordo Nazionale (GNA) libico presieduto da Fayez al Sarraj sono dovuti in larga misura al sostegno turco e all’arrivo di migliaia di miliziani jihadisti veterani del conflitto siriano favorito da Ankara, che hanno costretto le truppe di Haftar a ripiegare velocemente su Sirte dopo essere state a un passo dalla conquista di Tripoli.

L’iniziativa di pace promossa dal Parlamento di Tobruk con la Dichiarazione del Cairo è stata respinta dal GNA, probabilmente su pressione della Turchia. Nel frattempo, il generale Ibrahim Beitalmal, comandante in campo delle milizie del Governo di Accordo Nazionale impegnate nell’offensiva su Sirte e Jufra, il 15 giugno ha affermato che non ci sono “linee rosse” invalicabili per le loro forze, il cui obiettivo è la “liberazione di tutte le città libiche” sotto il controllo del generale Khalifa Haftar. Secondo molti esperti, la decisione di proseguire l’offensiva è stata influenzata da Ankara.

E secondo fonti bene informate sono in stato avanzato i negoziati tra Tripoli e la Turchia affinchè a disposizione di quest’ultima vengano messe due basi militari nel paese nordafricano.

In effetti, il 15 giugno la Reuters ha ripreso una fonte diplomatica turca, che ha preferito restare anonima, secondo la quale l’obiettivo principale di Ankara è assicurarsi una stabile presenza militare a lungo termine nell’Africa settentrionale. Per ora, tuttavia, ancora non sono state prese decisioni definitive circa il possibile utilizzo da parte della Turchia né della base navale di Misurata (località dove è attivo l’ospedale italiano con il relativo personale sanitario militare), né della base aerea di Al Watiya (non lontana dal confine con la Tunisia, 125 km a sud-ovest di Tripoli). Ma la fonte dell’agenzia di stampa britannica ha confermato che le consultazioni in merito, particolarmente intense, tra il governo presieduto dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan e quello di Tripoli guidato da Fayez al-Sarraj proseguono senza sosta.

E’ evidente che la presenza permanente di aerei e navi turche in Libia rafforzerebbe la crescente influenza nella regione e le rivendicazioni di Ankara sulle risorse marine di petrolio e gas nel Mediterraneo orientale.

Non a caso in cambio dell’aiuto militare i turchi hanno imposto al GNA un accordo sui confini marittimi e mirano ad ottenere il controllo di una parte significativa delle risorse petrolifere e gassifere del paese. Contestualmente, Sarraj è costretto a sostenere le rivendicazioni territoriali turche presso i paesi vicini.

Insomma, le manovre della Turchia si configurano come un classico esempio di politica imperialista e hanno lo scopo di ridurre la Tripolitania al rango di semi-colonia.

Alla luce di un simile scenario, occorre prestare particolare attenzione alle dichiarazioni fatte da Erdogan in occasione della sua recente visita in Algeria, in cui ha condannato il colonialismo europeo e in particolare quello francese, accusato di essersi macchiato della morte di 5 milioni di algerini.

Per il leader turco e le attuali élite culturali del paese solo le conquiste delle potenze occidentali vanno considerate “colonialismo”, a differenza di quelle ottomane che pure portarono all’occupazione di vasti territori in Europa, Asia e Africa e alla sottomissione dei loro abitanti, mentre le atrocità perpetrate contro armeni, assiri o greci sono semplicemente ignorate.

La cultura storico-politica della Turchia erdoganiana  vede, di fatto, nel passato ottomano soltanto un paradigma utile a giustificare ideologicamente l’espansionismo del paese nel Vicino Oriente e soprattutto nel continente africano. Questa dimensione mitica della storia nazionale nasconde però i reali interessi in gioco, per Ankara, nel continente africano, che sono gli stessi di quelli perseguiti dall’Occidente: acquisizione di nuovi mercati, influenza politico-economico-militare e controllo delle materie prime, a cominciare dalle fonti di energia. Per esse soprattutto è fondamentale mantenere il controllo su Tripoli, ma anche sulla Somalia, dove l’obiettivo è svilupparne i giacimenti di gas e petrolio esistenti.

La notizia, diffusa all’inizio di quest’anno, dell’invito al presidente turco Erdogan da parte delle autorità di Mogadiscio a condurre esplorazioni petrolifere lungo le coste somale, ha destato in Kenya molta preoccupazione. Alcuni giacimenti, infatti, si trovano in una zona contesa al confine somalo-kenyota e a Nairobi temono che Al-Shabaab, l’organizzazione islamista che abbiamo imparato a conoscere in Italia in occasione della vicenda legata al rapimento di Silvia Romano (in cui i servizi segreti turchi hanno svolto un ruolo decisivo) e che controlla di fatto la nostra ex colonia, possa ora accingersi a destabilizzare il paese.

Questi timori ci ricordano un ulteriore aspetto assai poco attraente del neo-imperialismo turco: l’uso politico della religione, spesso nelle sue forme più estremiste. Da tempo sono noti i legami della leadership turca con il movimento dei Fratelli Musulmani e i risultati che ha prodotto tanto in Siria quanto in Libia.

Proprio l’utilizzo di milizie islamiste nello scacchiere libico rappresenta oggi un serio rischio per la sicurezza europea e italiana in particolare: mescolandosi con le migliaia di migranti in procinto di imbarcarsi alla volta delle nostre coste, i militanti jihadisti potrebbero, infatti, riattizzare il terrorismo fondamentalista nel Vecchio Continente.

Il 24 giugno scorso il portavoce dell’LNA, il generale maggiore Ahmad Mismari, ha dichiarato nel corso di una conferenza stampa che “la presenza turca in Libia rappresenta una minaccia per l’intera regione” e ha denunciato come la Turchia stia cercando “di infiltrarsi in diversi paesi africani, tra cui il Niger e il Ciad. Ha ricevuto, tuttavia, un duro colpo in Sudan dove il popolo e l’esercito hanno ripulito il paese dai Fratelli musulmani. Continua ancora, però, l’invasione della Somalia, dell’Eritrea e dello Yemen”.

Da parte sua, nello stesso giorno, il consigliere della Corte Penale Internazionale (ICC) Muhammad Bakkar ha espresso un giudizio fortemente negativo sulle iniziative turche, e ha dichiarato in un intervento ad al Arabiya che “la Turchia ha commesso crimini di guerra contro l’umanità nel corso del suo intervento in Libia, dove ha impiegato nei combattimenti truppe mercenarie”. A suo parere le azioni turche violano la Convenzione di Roma sui crimini contro l’umanità.

Precedentemente, in una conferenza stampa congiunta tenuta a Parigi il 22 giugno con il presidente tunisino Kais Saied, Emmanuel Macron ha accusato la Turchia di condurre un gioco pericoloso e di aver violato gli accordi firmati al termine della Conferenza di Berlino. Il presidente francese ha poi ribadito che è nell’interesse della stessa Libia, dei suoi vicini e dell’Europa fermare l’intervento straniero nel paese.

Il 25 giugno i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Italia hanno diffuso una dichiarazione congiunta in cui hanno invitato tutte le parti in conflitto a fermare le ostilità: “Di fronte al rischio crescente che la situazione in Libia continui a peggiorare – si legge nella dichiarazione ufficiale – estendendosi a livello regionale, Germania Francia e Italia invitano tutte le fazioni libiche a cessare immediatamente e senza condizioni le ostilità e a fermare ogni ulteriore accumulo di mezzi militari nel paese”.

I tre ministri degli Esteri hanno anche invitato i paesi terzi impegnati nel conflitto libico a interrompere ogni tipo di interferenza e a rispettare integralmente l’embargo sulle armi imposto dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Il ministro degli Affari Esteri greco, Nikos Dendias, mercoledì scorso, al termine della visita a Evros dell’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera Joseph Borrell, ha accusato la Turchia di “continuare a minare la sicurezza, la stabilità e la pace nel Mediterraneo orientale”, causando gravi problemi ai paesi vicini.

“La Turchia – ha affermato Dendias – ha ripetutamente violato la sovranità di Libia, Siria, Iraq e della Repubblica di Cipro, paese membro dell’Unione Europea. In Libia, in totale disprezzo della legalità internazionale, ha violato l’embargo sulle armi dell’ONU per perseguire le sue aspirazioni neo-ottomane, ignorando palesemente i ripetuti richiami dell’Europa a rispettare la legalità internazionale”. Dendias ha quindi concluso mostrando apprezzamento per la tempestività delle posizioni espresse dal presidente francese Macron.

Dinanzi agli attuali sviluppi l’Italia non può continuare a rimanere ferma. Lo impone lo storico ruolo ricoperto in Libia dal nostro paese, nonché i fondamentali interessi nazionali in gioco. Pur in evidente difficoltà e nonostante l’incapacità dell’attuale governo di dispiegare una politica estera efficace nel contesto nordafricano, Roma mantiene fondamentali contatti con il Governo di Accordo Nazionale di Tripoli e una certa capacità di influenza che rende credibile l’ipotesi che essa possa, a questo punto, proporsi come principale motore di un processo diplomatico che contrasti e ridimensioni le aspirazioni imperiali di Ankara che, finora, in Libia come nel Mediterraneo orientale come nel Corno d’Africa, ha significativamente nuociuto alla proiezione internazionale dell’Italia.

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Libia: sanzioni USA contro il gruppo Wagner

Secondo quanto riportato dal giornale online La voce del patriota i recenti sviluppi della situazione in Libia, che – dopo la controffensiva delle milizie del Governo di Accordo Nazionale (GNA) presieduto da Fayez al Sarraj ai danni dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) guidato dal generale Khalifa Haftar – hanno visto ricostituirsi un equilibrio sul campo tra i due contendenti, oltre a sancire una sostanziale estromissione dell’Italia da un paese sul quale da decenni esercitava la sua sfera di influenza, certificherebbero anche un progressivo disimpegno degli Stati Uniti dalle vicende Nordafricane, parallelo a quello già verificatosi nelle ultime fasi del conflitto siriano.

In realtà, ad uno sguardo più attento, l’impressione è che Washington in questa fase preferisca gestire il caos generatosi dopo i rivolgimenti determinati dalle Primavere Arabe e dai successivi conflitti – e che hanno portato allo smantellamento delle vecchie impalcature statuali – scaricando su altre potenze (Russia, Turchia e altri) l’impegno diretto sul terreno, riservandosi invece un ruolo di arbitro, secondo la logica del “divide et impera”.

Confermano questo approccio il sostegno alle opposizioni anti-governative in Siria, contestuale alla politica speciale nei confronti dei Curdi e l’avvallo al loro progetto di creazione di un Kurdistan indipendente nel cuore del Grande Medio Oriente (Greater Middle East), in una logica di alleanza solo apparentemente contraddittoria dal punto di vista americano.

E anche in Nord Africa continua a dispiegarsi questo interventismo soft di matrice “imperiale” targato USA, disponibile a favorire, di volta in volta, l’uno o l’altro dei contendenti. Recentemente, ad esempio, il comandante dell’AFRICOM Thomas D. Waldhauser, responsabile per le relazioni e le operazioni militari statunitensi che si svolgono nel Continente, in una telefonata al ministro della Difesa tunisino, Imed Hazgui, ha manifestato la sua disponibilità a dispiegare le proprie unità militari in Tunisia, collegandola alla preoccupazione per le attività russe in Libia.

La decisione di rafforzare la presenza di AFRICOM nella regione è stata preceduta da una prolungata campagna mediatica contro l’influenza di Mosca nello scenario libico, laddove non hanno suscitato altrettanto allarme i trasferimenti di uomini e materiali da parte della Turchia a favore del GNA e, in particolare, di migliaia di jihadisti veterani del conflitto siriano in Tripolitania, sempre sotto l’egida di Ankara.

Eppure il rischio è che una parte di questi miliziani islamisti possano sbarcare prossimamente in Italia, confondendosi tra le migliaia di migranti pronti a salpare verso la Penisola. Secondo fonti citate dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani lo scorso marzo, “circa 40 ex combattenti affiliati ad al-Hamzat e ad altre milizie sono approdati in Italia, portando a 200 il numero di miliziani provenienti dalla Siria giunti in Italia provenienti dalla Libia” (link). Si noti che notizie di questo tenore appaiono ormai quotidianamente, rendendo sempre più concreto il pericolo di un riesplodere nel Vecchio Continente del terrorismo di matrice fondamentalista.

Va aggiunto che ormai la Guardia Costiera del GNA non sembra più essere in grado di gestire il flusso di migranti, che gli alleati turchi consigliano di utilizzare come strumento di pressione nei confronti dell’UE sulla falsa riga del metodo già adottato da Erdogan sulla rotta balcanica.

Pur mantenendo i tradizionali contatti con il generale Haftar – che, va ricordato, negli anni in cui fu costretto da Gheddafi all’esilio, risiedeva in Virginia – gli Stati Uniti sembrano in questa fase interessati soprattutto a ridimensionare il peso della Russia nel contesto libico. La conferma viene da una risoluzione del 16 giugno scorso del Congresso americano che valuta “il presunto finanziere russo del Gruppo Wagner Evgeny Prigozhin” come un soggetto “che rappresenta una minaccia per gli interessi nazionali e la sicurezza degli Stati Uniti d’America” (link), sottoponendolo a sanzioni. Il Gruppo Wagner è la società che avrebbe fornito assistenza militare e contractors all’LNA del generale Haftar.

Le principali accuse rivolte a Prigozhin fanno riferimento al sostegno militare che il suo gruppo avrebbe fornito ad Assad dal 2015 in poi e all’esercito di Haftar che sarebbe stato assistito con “mercenari, mezzi d’artiglieria, carri armati, droni e munizioni”, nonchè a varie altre operazioni condotte in almeno 20 paesi tra i quali figurano Repubblica Centrafricana, Madagascar, Mozambico e Sudan.

Dalla lettura della risoluzione risulta evidente, però, che il problema principale per la sicurezza USA è rappresentato dalla presenza di Wagner in Cirenaica al fianco di Haftar.

La risposta di Prigozhin non si è fatta attendere. In una “lettera aperta” rivolta al Congresso, egli ha affermato che “oggi l’interesse nazionale degli Stati Uniti è quello di punire tutti i dissidenti e di diffondere la loro influenza in tutto il mondo”. Oltre ad imputare agli USA di aver scatenato negli ultimi anni ben 41 conflitti, Prigozhin li ha accusati di non essere disposti a tollerare che gli altri paesi del mondo difendano i propri interessi “senza il permesso di Washington”.

Complessivamente le posizioni espresse da Prigozhin ricalcano la dottrina geopolitica putiniana improntata al realismo e alla difesa del diritto di tutti gli Stati di far valere i propri interessi, sottraendoli alle prevaricazioni della potenza unipolare egemone.

Di fronte a questo scenario che lascia presagire ulteriori sviluppi e un ritorno nella partita da parte statunitense – che difficilmente potrebbe tollerare, senza dire la sua, la presenza di truppe e velivoli militari russi (storico nemico) e turchi (alleato inaffidabile) a poche miglia marine dalle proprie basi siciliane – risulta ancora più evidente e preoccupante l’assenza di una strategia europea ed italiana dinanzi alle evoluzioni del caotico contesto libico.

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Libia: ex prigioniero di Mitiga denuncia torture

Un ex detenuto della prigione libica di Mitiga, nei pressi di Tripoli, ha denunciato, tramite un video-appello rivolto alla Corte Africana dei diritti umani e dei popoli, di essere stato sottoposto a torture e sistematici abusi. E’ quanto si apprende dall’account twitter ufficiale del LNA, l’Esercito di Liberazione Nazionale guidato dal generale Haftar, che ha rilanciato il video. Rajab Rahil Abdul-Fadhil Al-Megrahi, questo il nome dell’uomo, ha spiegato nel video di essere stato tenuto prigioniero nell’estate del 2019 a Mitiga, un centro di detenzione sotto il controllo della milizia Rada, un gruppo armato alleato con il Governo di Accordo Nazionale e vicina al ministro degli Interni Fathi Bashagha. Oltre a ricordare le ripetute violenze subite, l’uomo ha affermato di essere stato torturato personalmente dal ministro Fathi Bashagha nel corso di una visita da questi effettuata nella prigione di Mitiga e di aver subito dal lui l’amputazione dell’occhio sinistro. Nella denuncia presentata lo scorso 31 maggio, Al-Megrahi ha chiesto alla Corte di aprire un’indagine per appurare le responsabilità e punire gli autori dei crimini.