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Il Mali in rivolta contro il neocolonialismo francese

Un’analisi delle ragioni

La situazione venutasi a creare in Mali dopo il recente colpo di stato militare testimonia la crisi dell’influenza francese in Africa. Un’ulteriore conferma è rappresentatoa dal recente intervento tenuto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dal primo ministro della nuova giunta militare Choguel Kokalla Maïga che ha ammesso che il suo paese è stato costretto a rivolgersi alla compagnia militare privata russa Wagner dopo il ritiro della Francia.

“L’annuncio unilaterale del ritiro dei militari dell’Operazione Barkhane ha rappresentato un tradimento dei legami che univano l’ONU, il Mali e la Francia nella lotta in prima linea contro quegli elementi impegnati a destabilizzare il paese”, ha dichiarato il premier maliano il 25 settembre, quinto giorno dell’Assemblea Generale dell’ONU.
Di questa “nuova situazione” si è dovuto fare carico il nuovo governo che svilupperà tutto quanto necessario “per garantire il maggior livello di sicurezza possibile, in modo autonomo o con l’aiuto di altri partner, al fine di garantire alla popolazione un futuro migliore, che va raggiunto ad ogni costo”, ha aggiunto.

E mentre Choguel Kokalla Maïga pronunciava il suo discorso, lo stesso ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, dava conferma che le autorità maliane si erano rivolte a una “compagnia militare privata russa” per ripristinare l’ordine nel paese.

Nel frattempo, mercoledì 22 settembre si era svolta a Bamako, la capitale del Mali, una grossa manifestazione di piazza con migliaia di persone che protestavano contro l’interferenza francese negli affari interni del paese, proprio mentre più intensa si faceva la pressione internazionale nei confronti del nuovo leader militare, il colonnello Assimi Goïta, per dissuaderlo dal concludere l’accordo con il Gruppo Wagner.

Alla guida della folla c’era il noto panafricanista Kemi Seba con la richiesta di ritirare immediatamente le truppe francesi dal paese: “L’ultima fase della decolonizzazione è iniziata”, ha commentato su Twitter.

“Preferiamo i russi agli occidentali, ma preferiamo gli africani ai russi”, ha precisato poi Seba nel corso di una conferenza stampa a Bamako.

Il possibile arrivo dei russi in Mali era già stato anticipato a metà settembre dalla Reuters. La reazione del ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, e del ministro della Difesa tedesco, Annegret Kramp-Karrenbauer, non si era fatta attendere e i due avevano immediatamente definito l’ipotesi “inaccettabile”. Anche il capo della diplomazia europea, Sulla stessa lunghezza d’onda era intervenuto anche Josep Borrell, capo della diplomazia europea. Il 20 settembre, il ministro della Difesa francese, Florence Parly, si è recata a Bamako, minacciando di sospendere gli aiuti al Mali nella lotta al terrorismo nel caso in cui fossero arrivati i russi. Eppure, come hanno dimostrato le proteste di Hu e le dichiarazioni ufficiali della leadership maliana, tutti i tentativi europei sono caduti nel vuoto.

Al contrario, il nuovo governo del Mali ha risposto alle pressioni affermando categoricamente che non permetterà “A nessuno Stato straniero di intromettersi nelle proprie scelte e tantomeno di decidere con quali partner collaborare “.

L’insoddisfazione in Mali e nelle altre ex colonie nei confronti della Francia e del suo atteggiamento neocoloniale è in forte aumento negli ultimi mesi. I movimenti panafricanisti considerano Parigi il principale ostacolo allo sviluppo del continente: l’opinione pubblica locale accusa la Francia di estrarre illegalmente uranio e oro in Mali, di saccheggiare le risorse naturali africane e di imporre il franco CFA come strumento di signoraggio economico.

Accuse che in Italia non sono affatto sconosciute e dove, anzi, vari esponenti politici negli ultimi anni hanno messo in guardia su come l’atteggiamento transalpino nei confronti dell’Africa possa essere disastroso per l’Europa.

In particolare la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, è più volte intervenuta su questo tema affermando ripetutamente che la politica francese in Africa danneggia gli africani e la stessa Europa. In particolare, lo scorso marzo, intervenendo alla conferenza “L’Africa perduta. Instabilità, sfruttamento e interessi geopolitici in un continente dimenticato”, la Meloni ha sottolineato che:

“L’Africa, a differenza di quello che si pensa, è un continente ricchissimo di materie prime, nonostante sia il più povero del mondo. Ad esempio, società di proprietà dello Stato francese sono presenti in pianta stabile in Niger, dove sono concentrate gran parte delle riserve di uranio di tutto il pianeta. La multinazionale francese estrae uranio e lo porta in Patria per alimentare le centrali nucleari. Con l’uranio del Niger il governo di Parigi riesce a soddisfare un terzo del fabbisogno energetico nazionale e il 90% dei nigerini non ha nemmeno l’energia elettrica. In più, nei villaggi dove viene estratta questa preziosa risorsa, si beve acqua radioattiva e si coltiva su un terreno avvelenato dagli acidi”.

Secondo Giorgia Meloni, inoltre, “il saccheggio delle risorse africane non solo espropria i popoli della loro ricchezza ma causa ulteriore desertificazione, alimenta i conflitti tribali su cui si insinua come una serpe il fondamentalismo islamico, provoca i flussi migratori che non fanno bene né all’Africa né all’Europa”

In altre circostanze, la leader della destra italiana, aveva anche rimarcato come per gestire i flussi migratori “la soluzione non è prendere gli africani e spostarli in Europa ma liberare l’Africa da certi europei, come i francesi, che la sfruttano”.

Ma la Meloni non è l’unico esponente politico del nostro paese ad aver criticato l’approccio politico allo scenario africano nel recente passato. Nel 2019, per esempio, l’attuale titolare della Farnesina, Luigi Di Maio, affermò che l’Unione europea “dovrebbe sanzionare tutti quei paesi come la Francia che stanno impoverendo gli stati africani”

Matteo Salvini, da parte sua, nei mesi trascorsi al Viminale aveva evidenziato come tra le molte cause all’origine del problema migranti, un ruolo preminente lo avesse la circostanza che “c’e’ chi va in Africa non a creare sviluppo ma a sottrarre ricchezza a quei popoli e a quel continente. La Francia evidentemente è tra questi, l’Italia no”.

Anche in Africa centrale, in sostanza, Parigi si è mossa nell’ultimo decennio come un elefante in una cristalleria, producendo disordine, anarchia e diffidenza nelle popolazioni, con risultati disastrosi per l’Europa, come, peraltro, era già avvenuto in Libia, con gli effetti negativi che sono ancora sotto gli occhi di tutti. Il conseguente sgretolarsi dell’egemonia francese nella Françafrique sta aprendo le porte all’influenza non solo russa, ma anche cinese e turca, come dimostrano proprio i recenti avvenimenti in Mali. E da questi paesi dipenderà sempre più l’evoluzione del fianco meridionale europeo e la gestione dei flussi migrantori e delle molteplici tensioni sociali, economiche e politiche che attraversano il continente africano.

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Gli Stati Uniti e l’inchiesta “Lab-leak”: la lettera aperta di Christopher Ford, l’ex assistente di Mike Pompeo

Il Dipartimento di Stato USA e l’inchiesta “Lab-leak”: lettera aperta di Christopher Ford, ex assistente del segretario di Stato Mike Pompeo*

* Christopher Ford ha prestato servizio fino all’8 gennaio 2021 come assistente del Segretario di Stato USA Mike Pompeo per la sicurezza internazionale, svolgendo negli ultimi 15 mesi dell’amministrazione Trump  le funzioni di sottosegretario di Stato per il controllo degli armamenti e la sicurezza internazionale. In precedenza, sempre presso il Dipartimento di Stato, aveva guidato la Direzione per il contrasto alla proliferazione delle armi di distruzione di massa. Laureato a Harvard, Rhodes Scholar all’Università di Oxford e alla Yale Law School, il dottor Ford ha collaborato in qualità di esperto con vari think tank, è stato ufficiale dell’intelligence della Marina degli Stati Uniti, membro dello staff di cinque diversi comitati del Senato degli Stati Uniti e diplomatico americano di alto livello. È autore di due libri sulla politica estera cinese e di decine di articoli su argomenti di sicurezza internazionale. Qui il suo sito personale.

In una lettera aperta pubblicata lo scorso 10 giugno, Ford prende posizione contro le accuse mossegli da alcuni consulenti e funzionari del Dipartimento di Stato americano di aver tentato di boicottare l’indagine sulla Lab-leak – l’ipotesi secondo cui il COVID-19 avrebbe un’origine artificiale e si sarebbe diffuso in seguito a una fuga accidentale del patogeno dal laboratorio di Wuhan. Accuse che hanno dato origine negli USA a una violenta e importante polemica sui media.

La lettera aperta

Siccome i fatti e l’onestà intellettuale continuano ad avere un valore sia in ambito giornalistico sia in ambito politico, nonostante la deriva che caratterizza i nostri tempi, spero che questa lettera aperta aiuti a fare chiarezza, dopo la notevole quantità di sciocchezze e falsità che sono state scritte recentemente riguardo ai litigi all’interno del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America  nelle ultime settimane dell’amministrazione Trump, sul modo in cui avrebbe dovuto essere esaminata la questione delle origini del SARS-CoV-2.

Mi sono deciso a scrivere perché, per dirla senza giri di parole, sono stanco di essere bersaglio di stupide e paranoiche teorie complottiste diffuse da chi sostiene di saperla lunga, ma che qualsiasi osservatore attento e scrupoloso potrebbe confutare senza difficoltà, considerando che il sottoscritto è colui che sin dal 2007 ha messo in guardia la comunità politica circa la minaccia rappresentata per gli Stati Uniti e per l’intero mondo democratico dalle ambizioni geopolitiche del Partito Comunista Cinese. Stanno lì a dimostrarlo due saggi scientifici, decine di articoli e discorsi, pronunciati anche in veste ufficiale di membro del Dipartimento di Stato: in che modo avrei coperto, dunque, le responsabilità del Partito Comunista Cinese?

So bene, però, avendo frequentato la politica per molto tempo, che un’assurdità, per quanto stupida, se inserita in una narrazione conveniente, è in grado perfino di negare con successo l’evidenza e la logica dei fatti e so anche che una sequela di accuse compulsive e oltraggiose appassionano assai più di un’analisi sobria. Può darsi, dunque, che provare a fare chiarezza sia fatica sprecata. Ciononostante ho deciso di tentare.

E cercherò anche di fare qualcosa di assai poco ortodosso. Piuttosto che usare questa lettera come un’opportunità per inventare e diffondere a gran voce la mia versione dei fatti post eventum – aderendo a una prassi diffusa, ma intellettualmente disonesta – cercherò invece di fornire esclusivamente risposte specifiche e supportate da prove a quanto riportato nei documenti offerti all’attenzione della pubblica opinione dai solerti giornalisti di Fox news e Vanity Fair.

1) Riferimenti documentali precisi

A tal proposito, siccome la questione che ci interessa è il mio ruolo e la mia posizione in relazione all’indagine sulle origini del COVID-19, farò riferimento a tre documenti da me elaborati ed inviati ad altri membri del Dipartimento di Stato all’inizio del gennaio 2021 (Per la cronaca: quando ho lasciato il Dipartimento, non avevo conservato una copia per me di questi documenti. Si dà il caso, però, che fortunatamente le bugie raccontate su questi temi abbiano suscitato l’indignazione  di coloro che sapevano cos’era successo veramente e che ne avevano conservato copia.  Sono felice che essi siano oggi di pubblico dominio, perché aiutano a chiarire cosa stessi facendo esattamente in quel periodo e perché)

I documenti sono i seguenti:

  1. La mail da me inviata il 4 gennaio 2021 a Tom DiNanno e David Asher il 4 gennaio 2021, pubblicata da Fox News;
  2. Uno scambio di mail intercorso tra me e DiNanno il 5 e il 6 gennaio, recuperabile sempre su Fox News
  3. Un messaggio che ho inviato a un certo numero di alti funzionari del Dipartimento di Stato l’8 gennaio, che può essere recuperato su Vanity Fair

2) Sollecitare un’indagine corretta e documentata sulla fuga da laboratorio

Parto da un punto critico. Come si evince da questi documenti, le discussioni in seno al Dipartimento di Stato vertevano sulla necessità di accertare i fatti prima di assumere posizioni pubbliche particolarmente gravi come l’affermazione del Segretario di Stato Mike Pompeo secondo cui fosse “statisticamente” impossibile che SARS-CoV-2 non si fosse originato da una manipolazione di laboratorio effettuata in Cina, l’avvio di “iniziative diplomatiche” presso i governi stranieri sulla base di questa teoria e l’accusa ai danni della Cina di aver violato la Convenzione sulle armi biologiche (BWC) con il COVID-19.

Non era in atto alcun tentativo di impedire l’indagine sull’origine del virus: al contrario la disputa riguardava le modalità con cui condurre l’inchiesta affinché se ne potesse garantire la correttezza e la validità scientifica, soprattutto perché per noi era di vitale importanza andare fino in fondo sulla questione delle “origini” del COVID, inclusa la possibilità che esso provenisse dal Wuhan Institute of Virology (WIV). Personalmente ho sempre sostenuto che l’ipotesi “Lab-leak” meritasse un esame approfondito, perché si tratta di un’ipotesi molto realistica. E non lo sto dicendo solo ora, l’ho affermato anche all’epoca. E spesso.

A questo punto, diamo un’occhiata ai documenti, cominciando dalla mia e-mail del 4 gennaio a DiNanno e Asher. In quel messaggio sottolineavo come le “accuse rivolte dall’Ufficio per il controllo, la verifica e la conformità degli armamenti (AVC) al WIV e al programma cinese BW di essere all’origine di SARS-CoV-2 erano “importanti” e “preoccupanti” e che, proprio per questo, dovevano essere subito vagliate da esperti scienziati.

(Ebbene sì, lo ammetto: ho chiamato il virus “WuFlu”. In un momento in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità escogitava denominazioni “non discriminatorie” come “Alpha” e la gente parlava, invece, liberamente di “variante inglese” “o “variante sudafricana”. Non mi pareva ingiustificato chiamare il virus originale facendo riferimento alla sua effettiva provenienza da Wuhan. Temo di averlo chiamato altrove anche “KungFlu”. Visto col senno di poi tutto questo non appare particolarmente intelligente. Ma spero che il lettore tenga conto del fatto che trattava di mail interne, non destinate ad essere rese pubbliche. Se avessi saputo che un giorno lo sarebbero divenute non sarei stato così naif. Mea culpa.)

In ogni caso, in quella mail ricordavo a DiNanno e Asher di aver loro ordinato, circa un mese prima, di istituire “una commissione di esperti” che, coinvolgendo scienziati di alto profilo ed elementi dell’intelligence, valutasse l’attendibilità delle informazioni di AVC. Chiedevo loro, inoltre, per quale motivo non avessero effettuato le necessarie verifiche prima di fare certe affermazioni e, soprattutto, per quale ragione continuassero a diffondere tra i membri dell’agenzia certe accuse senza averle prima fatte validare da scienziati indipendenti.

In quello stesso messaggio datato 4 gennaio, ribadivo la mia intenzione di “chiedere maggiore trasparenza alla Repubblica Popolare Cinese, soprattutto in merito al grave occultamento dei dati sull’epidemia COVID-19 nelle prime settimane, laddove una maggiore correttezza da parte delle autorità cinesi e un’azione risoluta avrebbero potuto evitare milioni di morti e indicibili sofferenze”.

“Un’indagine sulle origini [del COVID] è di cruciale importanza”, ribadivo, “e mi pregio di insistere affinché si lavori con la correttezza e la chiarezza che finora è mancata”. In quella mail sottolineavo ancora quanto fosse importante, come governo degli Stati Uniti, essere certi delle nostre accuse al governo cinese prima di renderle pubbliche:

“[Dobbiamo] essere certi che le nostre affermazioni siano solide e scientificamente verificate onde evitare imbarazzi e perdere di credibilità presso l’opinione pubblica… Come ho ribadito più volte, se le tue conclusioni saranno accertate, sarò in prima fila ad urlare sui tetti contro di loro. Potreste avere ragione, ma voglio essere sicuro che i fatti siano accertati… Si tratta di questioni di estrema importanza, che dobbiamo indagare fino in fondo, ma in modo rigoroso, documentabile e sincero”.

Da qui la mia irritazione, espressa in quel messaggio, per il fatto che DiNanno si fosse mostrato indolente “nell’organizzare le verifiche a livello scientifico e di intelligence del lavoro di David [Asher]”. Mettevo quindi in guardia DiNanno sul fatto che tutto questo potesse produrre effetti negativi: “Per favore, non continuare a dare l’impressione che l’AVC tema una revisione imparziale” e insistevo affinché mi comunicasse al più presto quando sarebbe avvenuta la verifica scientifica delle accuse. Tutto questo è lì nella mail.

Il giorno dopo, il 5 gennaio, non avendo ricevuto risposta da DiNanno, gli ho inviato una nuova mail (questo il messaggio in fondo alla stringa della posta elettronica del 5-6 gennaio pubblicato da Fox News):

“Sta diventano imbarazzante, per non dire preoccupante, il fatto che AVC dia l’impressione di evitare di assumersi l’impegno di far valutare agli esperti le accuse mosse contro il WIV, mentre continuano da circa un mese a circolare notizie e denunce in merito diffuse dall’agenzia presso l’opinione pubblica”.

DiNanno rispondeva alla mia mail del 5 gennaio con banalità come se non stessero facendo altro che “indagare su potenziali violazioni del controllo degli armamenti”. (Ecco il passaggio centrale nella stringa del 5-6 gennaio.) “Questo è [sic] esattamente ciò che abbiamo fatto”, dichiarò, “e che continueremo a fare”.

Fermiamoci un momento a questo punto. Il lettore attento avrà notato che con un commento come “indagare su potenziali violazioni del controllo degli armamenti”, DiNanno abbia puntualizzato come AVC non stesse tanto indagando sulle origini di SARS-CoV-2, quanto, più specificamente, sulla presunta violazione della Convenzione sulle armi biologiche da parte della Cina attraverso la creazione del virus. In questo modo nell’AVC si mostravano convinti che COVID-19 fosse un esperimento di armi biologiche (BW) andato storto – o addirittura un agente BW deliberatamente scatenato segretamente contro il resto del mondo da Pechino dopo aver vaccinato la propria popolazione, come peraltro suggerito pubblicamente da Asher, in modo piuttosto sorprendente, dopo che il Dipartimento di Stato ha rescisso il suo contratto di consulenza. (E’ possibile apprezzarlo in tutta la sua sobria, cauta, metodica boria in un video su YouTube). In un quadro simile, non sorprende – come ricordavo anche nella mail del 4 gennaio a DiNanno – che nel briefing di dicembre, quando l’AVC mi ha esposto per la prima volta la sua teoria sulle origini del virus, Asher a un certo punto abbia ipotizzato che SARS-CoV-2 fosse un “agente selezionato geneticamente” (GSA) che la Cina stava usando per colpirci, come dimostrato, diceva, dal fatto che gli Stati Uniti presentavano un numero incomparabilmente più alto di casi rispetto all’Africa subsahariana. (Naturalmente non c’è bisogno che stia qui a spiegare perché si trattasse di un’ipotesi insostenibile sotto il profilo analitico, oltre a presentare implicazioni di inaudita gravità.)

Fortunatamente, però, nella sua risposta del 5 gennaio DiNanno mi informava anche del  fatto che AVC aveva finalmente costituito un gruppo di esperti per verificare scientificamente la tesi e che si sarebbe riunito nella serata di giovedì 7 gennaio. (Alla buon’ora! Come si evince dalla mia mail del 4 gennaio avevo chiesto un esame scientifico relativo agli aspetti “statistici” della teoria di AVC sin da quando mi era stata esposta per la prima volta nel mio ufficio a dicembre.)

Nell’attesa che si riunisse il panel, tuttavia, scrivevo nuovamente a DiNanno il 6 gennaio, per sottolineare quanto fosse importante che scienziati autorevoli esaminassero le accuse di AVC prima che accuse così gravi fossero rese pubbliche: “Come ho detto prima, essere in possesso di informazioni che suonano come scientifiche presso un pubblico profano non equivale ad essere corretto. Non ho le competenze scientifiche per sottoporre a critica le conclusioni di David. E nemmeno tu. Ma neanche lui ha una formazione appropriata sotto il profilo tecnico su questi argomenti. Ciò non significa che abbia torto, ovviamente, ma questo aspetto presenta delle implicazioni su come debba essere affrontata una questione complessa e controversa con cui voi ragazzi vi state confrontando, trattando le bioscienze con superficialità… Se hai ragione, dovresti essere disposto a dimostrarlo confrontandoti con veri esperti della materia che, a differenza di coloro che hanno costruito e argomentato la teoria, abbiano competenze specifiche nell’ambito scientifico in cui ti stai avventurando. Davvero non riesco ad immaginare come avrei potuto essere più chiaro su questo da un mese a questa parte. Le tue accuse sono gravi e, potenzialmente, dirompenti e proprio per questo devono essere verificate e valutate con estrema attenzione… Le tue denunce devono essere valutate da esperti qualificati e non semplicemente lanciate su una serie di diapositive dinanzi a un pubblico composto da non scienziati col rischio che possano poi essere confutate”.

Era di estrema importanza ottenere una conferma scientifica da parte delle teorie avanzate da AVC sull’origine in laboratorio del virus, perché sino a quel momento l’indagine di AVC aveva dato l’impressione di aver sistematicamente aggirato gli esperti del Dipartimento di Stato e la stessa comunità di intelligence degli Stati Uniti. Come spiegavo nel mio messaggio dell’8 gennaio, “a quanto pare AVC ha informato di tutto questo alcuni elementi del Dipartimento e alcuni partner di altre agenzie per diverse settimane, ma sembrerebbe che su indicazione di un membro dello staff del S/P [Ufficio di programmazione politica del Dipartimento] abbiano evitato di informare me ed altri sul lavoro d’indagine, nonché la comunità di intelligence nel suo complesso”.

(Breve nota a piè di pagina, ma, credo, significativa: l’ultima osservazione contenuta nella mail, quella relativa all’esclusione degli esperti, mi è stata suggerita, in qualche modo, dallo stesso Tom DiNanno. Quando gli chiesi perché l’AVC avesse eseguito l’inchiesta senza coordinarsi con l’alto funzionario di riferimento…cioè, io –  mi rispose timidamente che gli era stato ordinato di comportarsi così da Miles Yu, membro dello staff del S/P dell’epoca. Stando a DiNanno, Yu avrebbe detto che queste specifiche istruzioni provenivano direttamente dal Segretario di Stato. DiNanno non sembra aver verificato quanto detto da Yu, ma di essersi fidato sulla parola, in virtù del ruolo da lui ricoperto, quello di sottosegretario di Stato de facto. Sarebbe interessante a questo punto capire se: (1) davvero il Segretario di Stato Pompeo ha ordinato di non coinvolgere nell’inchiesta sulle fughe da laboratorio condotte da AVC gli esperti di guerra biologica del Dipartimento, nonché i funzionari dell’intelligence statunitense, portando avanti il lavoro in segreto, senza comunicarlo nemmeno al funzionario facente funzioni di Sottosegretario con delega al controllo degli armamenti e la sicurezza internazionale; (2) Yu, almeno sotto questo aspetto, si sia rivelato un consulente scorretto; o (3) DiNanno mi abbia mentito a proposito della sua conversazione con Yu. Forse un bravo giornalista potrebbe scoprirlo.)

3) il panel di esperti

In ogni caso, finalmente il 7 gennaio si sarebbe potuta avere la possibilità di sottoporre a verifica scientifica la tesi di AVC secondo cui SARS-CoV-2 sarebbe stato il prodotto di una manipolazione da laboratorio del governo cinese, grazie al gruppo di esperti scelto dalla stessa AVC per discutern la “prova statistica”, nei termini in cui essa era stata data per certa a me e ad altri.

Purtroppo, però, come facevo notare il giorno successivo (8 gennaio) nel mio messaggio, nonostante il mio espresso invito – formulato negli ultimi tre paragrafi della mia mail del 6 gennaio – di mettere in condizione gli altri membri del panel “di leggere il documento in anticipo”, AVC non lo aveva messo a disposizione. Tant’è che l’8 gennaio scrivevo: “AVC non ci ha fornito il documento prima della discussione di ieri, per cui la maggior parte dei membri del panel non ha avuto la possibilità di studiarlo in dettaglio”.

Anche così, comunque, non fu difficile per gli analisti coinvolti notare alcuni difetti di base dell’argomento “statistico”, che era stato presentato durante il panel dallo scienziato a cui AVC aveva affidato il compito di sviluppare quella tesi. (Il suo nome era ampiamento conosciuto, ma avevo deciso di non citarlo nel messaggio che avevo inviato ai colleghi del dipartimento. Ritenevo che gli scienziati convocati dovessero sentirsi liberi nel giudizio: ero preoccupato di cosa avrebbe dichiarato il governo degli Stati Uniti e non volevo che colui che aveva elaborato la tesi fosse trascinato nella mischia in prima persona, anche perché la sua posizione era ormai diventata quella di AVC, che l’FBI si occupava di diffondere.)

Vi risparmio l’elenco dettagliato dei rilievi critici formulati dagli esperti contro l’argomento “statistico” di AVC dopo il primo briefing, consegnatomi già a dicembre nel mio ufficio, anche perché i dettagli salienti è possibile leggerli nel messaggio che ho inviato l’8 gennaio ai colleghi più anziani del Dipartimento di Stato. (In quell’occasione mi sono concentrato sull’argomento statistico, dato il risalto che esso aveva avuto nei briefing di AVC; non pretendevo di riassumere in quel messaggio l’intera discussione sortita durante il panel e tutte le altre questioni sollevate). Come potrà verificare chi avrà interesse a leggere il mio resoconto dell’8 gennaio, le tesi di AVC presentavano notevoli criticità. Nella migliore delle ipotesi non era ancora possibile renderle la posizione ufficiale del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti – motivo per il quale mettevo in guardia i miei colleghi, con la mail dell’8 gennaio, dall’affrettarsi a utilizzare l’argomento “statistico”.

Oggi, grazie a Vanity Fair, sono a conoscenza del fatto che un paio di giorni dopo – allorchè io avevo ormai lasciato il Dipartimento – DiNanno replicò con un suo report al mio promemoria. E’ possibile reperirlo on line, dunque non lo esaminerò adesso. Ma alla luce di quanto ho chiarito con prove documentali in merito a quella che era allora la mia posizione sul tema, è facile dedurre quali e quante distorsioni e falsità contenesse la replica di DiNanno. Sarebbe illuminante leggere adesso in parallelo, con attenzione, i nostri due documenti. Risulterebbe abbastanza chiaro che il suo memo era un elenco pasticciato e scorretto di attacchi infondati contro di me – un insieme rabbioso di insulti sottoposto all’attenzione di persone che non potevano sapere cosa gli avessi scritto nel corso dell’ultimo mese e inviato loro in un momento in cui, essendomi dimesso, lui sapeva bene che non avrei avuto la possibilità di difendermi. (Per fortuna, però, i nostri capi erano persone intelligenti. E’ facile comprendere quanto avessero preso seriamente la nota di DiNanno dal fatto che abbiano poi agito quasi sulla scorta del mio invito a maneggiare con cautela le tesi scientifiche di AVC, piuttosto che sulla base del tentativo scomposto di DiNanno di avallare quelle tesi, facendomi passare per il cattivo. Di questo riparlerò dopo).

In questa lettera aperta non è mia intenzione affrontare problemi di ordine scientifico: li lascio a chi ha i titoli per misurarsi con essi. Come scrissi a DiNanno il 4 gennaio: “Non ho le competenze scientifiche per giudicare le affermazioni di David. E nemmeno tu. Ma neanche lui ha una formazione appropriata sotto il profilo tecnico su questi argomenti”. Questo è il vero motivo per cui ho insistito affinché AVC costituisse un gruppo di esperti e la ragione per cui, dopo la riunione del panel il 7 gennaio, ho ritenuto mio dovere informare i colleghi delle perplessità emerse in quell’occasione. E’ possibile che alla fine la scienza dimostri che SARS-CoV-2 è il risultato di una manipolazione artificiale condotta nel WIV. Ma sarebbe stato irresponsabile da parte nostra assumere ufficialmente questa tesi soltanto sulla base delle prove e degli argomenti messi in campo nel corso della tavola rotonda del 7 gennaio.

4) Basta con accuse assurde

Ora alcuni dei miei ex colleghi – forse imbarazzati dagli episodi descritti – mi accusano di aver tentato di impedire l’indagine sull’ipotesi della fuga da laboratorio e di aver provato ad affossarla. (Ringrazio Tucker Carlson per avermi mosso per ben due volte questa accusa in televisione, scatenandomi contro un’ondata di violenza e di odio. Ecco, ad esempio, una mail che ho ricevuto il 3 giugno, subito dopo essere stato accusato per la prima volta da Carlson durante il suo show: “Vaffanculo globalista del c… Perché diavolo hai boicottato la teoria sulla fuga da laboratorio? Vai a leccare i piedi ai comunisti cinesi”. Messaggio spedito dall’indirizzo mail cantcuckthetuck@gmail.com. Ringrazio ancora Tucker per avermi presentato questi nuovi amici.)

Eppure nessuna persona seria, che sia a conoscenza del mio carteggio con AVC potrebbe anche solo lontanamente pensare che fosse mia intenzione impedire l’indagine sull’ipotesi di laboratorio. Lo si evince ampiamente dalle mie mail del 4 e 5-6 gennaio (sono on line ed è possibile rileggerle anche nella loro interezza). Al contrario è evidente che ho sempre ritenuto della massima importanza indagare a fondo su questa ipotesi, sottolineando che “se si scoprisse che le conclusioni [di AVC] sono esatte”, io stesso sarei il primo ad attaccare pubblicamente la Cina.

Un’ulteriore prova del mio personale impegno ad indagare sul WIV – e della mia cautela volta a proteggere l’inchiesta dal discredito e dal ridicolo che l’avrebbe soffocata nella culla, qualora avessimo fatto assumere ufficialmente al Segretario di Stato Pompeo e al Dipartimento una posizione facilmente smontabile dal punto di vista scientifico – è rilevabile proprio nel mio messaggio dell’8 gennaio, allorché ribadivo:

“Se fondate, le conclusioni di AVC sarebbero estremamente importanti…Tutti i partecipanti [al panel del 7 gennaio] sembrano…concordare sul fatto che la Cina dovrebbe essere sollecitata a fornire alcune risposte, tra cui la natura degli esperimenti effettuati a WIV sui nuovi coronavirus, se ci sono stati incidenti nel laboratorio, quali sono i dati presenti nel database di sequenziamento del WIV (misteriosamente messo off line all’inizio della pandemia) e quando precisamente la Repubblica Popolare Cinese si è resa conto (in contrasto con quanto rappresentato in precedenza) che SARS-CoV-2 era presente nei campioni ambientali del “mercato umido” – e non nei campioni di animali vivi – portandoli a concludere che il mercato di Wuhan non era la fonte dell’epidemia. Con domande del genere potremmo esercitare una forte pressione sulla Cina, pretendendo risposte puntuali ed evidenziandone la mancanza di trasparenza per non aver riferito (o aver addirittura coperto) informazioni sensibili”.

E sempre l’8 gennaio ho esplicitamente invitato “AVC e ISN [l’Ufficio per la sicurezza internazionale e la non proliferazione] a collaborare alla stesura di un elenco di quesiti e di punti critici da utilizzare” per mettere Pechino sotto pressione. Insomma, sarebbero questi i comportamenti di un “pezzo di merda globalista” che “lecca i piedi ai comunisti cinesi”, o piuttosto quelli di un amministratore serio, che vigila sulla correttezza e l’integrità intellettuale del processo decisionale del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America, in modo da garantirne la credibilità, evitando posizioni avventate che avrebbero screditato l’ipotesi della fuga da laboratorio? Il lettore può farsi da solo un’idea.

5) Valutazioni precise

E a questo punto?

A questo punto chiunque abbia voglia di capire realmente quali fossero le mie intenzioni in quel periodo caratterizzato da duri scontri in senso al Dipartimento di Stato, ora è in possesso della mia versione dei fatti, supportata da documenti interni coevi. In sintesi: personalmente ritenevo folle rendere pubbliche le conclusioni scientifiche di AVC – come avevano esortato a fare DiNanno e Asher – rilasciando alla stampa dichiarazioni ufficiali e intraprendendo iniziative presso i governi stranieri (inclusa la Cina) volte a scoprire se la Cina avesse violato la Convenzione sulle armi biologiche con questo coronavirus, senza aver prima sottoposto a verifica scientifica e imparziale simili accuse.

Desidero essere assolutamente chiaro: da dove ero seduto in quel momento,  ovvero sulla poltrona di Sottosegretario di Stato per il controllo degli armamenti e la sicurezza internazionale, non ho mai riscontrato alcun tentativo messo in atto dal Dipartimento di Stato volto a impedire l’indagine sull’ipotesi lab-leak. Al contrario – come si evince dai documenti – ho sostenuto la necessità di verificarla. Mi interessava a tal punto arrivare alla verità sul WIV che ho insistito affinché si facesse un lavoro inconfutabile. (Se una cosa ti sta davvero a cuore, hai il dovere di assicurarti che sia fatta nel migliore dei modi, altrimenti la stai sabotando). Non mi risulta che nel Dipartimento ci fosse qualcuno che la volesse ignorare o escludere a priori.

Insomma non c’era nessuna cospirazione in atto volta ad insabbiare l’inchiesta, almeno non al Dipartimento di Stato. C’era solo la richiesta di procedere con il massimo rigore intellettuale e di giungere a conclusioni scientificamente difendibili ed accurate. Di tutto questo, non mi scuso. Facevo solo il mio dovere.

E dopo cosa è successo? A quanto pare i miei superiori al Dipartimento di Stato hanno ritenuto valide le considerazioni che avevo formulato l’8 gennaio sulle debolezze della presunta prova “statistica” rilevate dal gruppo di esperti riunito il giorno prima da AVC. Lo testimonia il fatto che né il Segretario di Stato Pompeo, né alcun altro funzionario in servizio, abbiano assunto posizioni sull’origine artificiale del virus presso il WIV sulla base delle considerazioni e delle argomentazioni precedentemente diffuse da AVC. Pompeo, al contrario, il 15 gennaio rese pubblica una “nota informativa” in cui si riportavano accuratamente i rapporti d’intelligence de-secretati che apparivano rilevanti per l’ipotesi lab-leak.

Essendo i miei superiori personalità dal carattere tutt’altro che timido, non ho dubbi che se avessero ritenuto le tesi di AVC scientificamente fondate non avrebbero avuto alcun timore ad avanzarle pubblicamente e ad alta voce. Eppure hanno preferito non farlo. Non posso non sospettare, a questo punto, che si sia trattato di una silenziosa approvazione delle mie considerazioni sull’inopportunità di affrontare la “prima serata” sulla base delle considerazioni di AVC.

(Sarebbe interessante che qualcuno chiedesse ai miei ex superiori cosa pensassero esattamente dell’argomento “statistico” di AVC sulla variazione genomica e perché – se era davvero così probante scientificamente – lo abbiano abbandonato. Di certo posso dire solo una cosa: non è stata una mia decisione. L’8 gennaio, dopo aver invitato alla cautela con la mia lettera, avevo già lasciato il Dipartimento. Sarebbe interessante sapere quali discussioni si siano tenute successivamente).

Penso, però, che quanto successo dopo sia significativo. Piuttosto che concentrarsi su presunte “prove scientifiche” , la discussione pubblica sull’origine del COVID si è spostata sugli interrogativi e sui sospetti sollevati sul WIV dalle notizie di intelligence riportate nella “nota informativa” del Segretario Pompeo. Era questo, a mio avviso, il modo migliore di procedere. Prima di lasciare il Dipartimento, infatti, avevo personalmente rivisto e corretto una prima bozza di quella “nota”, mentre le informazioni de-secretate cominciavano a circolare per ottenere dalle agenzie l’autorizzazione alla loro divulgazione. Fui contento di vederle emergere pubblicamente il 15 gennaio. L’amministrazione Biden non ha sollevato dubbi su quei rapporti e oggi è in corso un dibattito pubblico robusto sulla possibile origine di laboratorio del virus.

In tutta franchezza, credo che chiunque abbia a cuore che l’ipotesi della fuga da laboratorio sia presa sul serio dovrebbe essermi grato, invece di diffamarmi. Se non avessi insistito affinchè le conclusioni di AVC fossero sottoposte a controllo scientifico, l’ipotesi ne sarebbe uscita screditata.  Se oggi abbiamo un dibattito pubblico serio in proposito lo si deve al fatto che il Dipartimento di Stato non ha assunto, all’epoca, come propria posizione ufficiale, affermazioni dal tenore scientifico che non avrebbero resistito al vaglio degli esperti.

E’ un po’ di tempo che mi occupo di controllo degli armamenti e di sicurezza internazionale: dal 2003 al 2006 sono stato vice segretario aggiunto di quello che oggi è l’AVC Bureau. Come ho detto a un amico qualche giorno fa – un vecchio e caro amico, ex collega, che oggi mi demonizza dando credito alle bugie sparse su di me su questi temi – l’onestà, la precisione e la serietà intellettuale sono le armi più potenti a disposizione di chi si occupa di queste cose. Sono qualità che vanno salvaguardate ad ogni costo. Distinguono chi dice la verità dal fanatico ideologizzato. Sono addolorato per l’ignobile campagna mediatica imbastita contro di me, ma sono orgoglioso di essere stato fedele a questi valori in un momento in cui altri funzionari hanno avuto la tentazione di deviare da essi. Spero vivamente che adesso sia possibile mettere da parte gli scontri interni per concentrarci sul nostro vero compito: capire cosa diavolo è successo a Wuhan.

6) Conclusioni

Mi rendo conto che l’esposizione dettagliata e documentata delle lotte che si sono tenute all’interno del Dipartimento di Stato possa risultare un po’ noiosa. Di certo si discosta dalla narrazione moralistica che preferisce rappresentare eroi coraggiosi impegnati a combattere, in nome della giustizia, contro i malvagi e la corruzione all’interno delle istituzioni. Non è nemmeno in grado di sollecitare sproloqui che provochino indignazione: cose modeste come la “verità” mal si adattano a narrazioni sexy, condite di inganni e cospirazioni.

Eppure questi sono i fatti, verificabili documentalmente, e registrano le posizioni da me assunte in quel frangente. Se tutto questo è poco interessante per te che leggi, evidentemente hai davanti la lettera sbagliata e mi scuso per averti fatto perdere tempo.

In caso contrario, vuol dire che la realtà dei fatti per te è importante, per cui ti ringrazio per avermi prestato attenzione.

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Africa: l’hub del narcotraffico diretto in Europa

Anche per colpa dell’Europa

Sono sempre più evidenti gli effetti negativi della presenza francese in Africa. Non soltanto le ex colonie di Parigi continuano ad essere dipendenti economicamente e finanziariamente dalla Francia, ma, ciò che è più grave, questa mostra serie difficoltà a garantire la sicurezza nella regione.

Una serie di fatti recenti, ad esempio, dimostrano come esista un legame diretto tra le crescenti minacce terroristiche in Africa e l’aumento dei volumi del traffico di stupefacenti (cocaina, eroina, metanfetamine, ecc) diretto, attraverso il continente nero, in Europa.

I legami tra droga e jihad

La presenza di truppe straniere in Africa non è riuscita a ridurre il numero di cellule terroristiche e fondamentaliste: al contrario, negli ultimi tempi il numero di attacchi è considerevolmente aumentato, soprattutto nell’area del Sahel. Nonostante una presenza militare sempre più consistente di paesi europei (soprattutto Francia e Gran Bretagna), Stati Uniti e organizzazioni internazionali, le insurrezioni di marca jihadista aumentano e i gruppi islamisti si sono notevolmente rafforzati.

In virtù del suo passato coloniale, la Francia continua ad essere uno degli attori principali dello scenario africano, ma la sua capacità di influenza va attenuandosi con il trascorrere del tempo. Se prima la presenza militare di Parigi era percepita come un fattore di stabilizzazione del contesto, con effetti persino positivi per le popolazioni, oggi l’armée viene vista esclusivamente come un’odiosa forza di occupazione.

Lo stesso concetto di Françafrique che un tempo legittimava l’egemonia francese in una logica di aiuto e protezione, è oggi al contrario sempre più inteso dall’opinione pubblica locale come un paradigma esclusivamente neo-coloniale. L’anarchia monta e con essa prosperano bande e cellule jihadiste sempre più incontrollabili.

Lo scorso 12 settembre in Mali dei banditi hanno aggredito impunemente alcuni camionisti marocchini mentre ad agosto un’organizzazione jihadista in Burkina Faso ha ucciso 47 persone (di cui 30 civili). Sono solo due esempi recenti, ma gli episodi analoghi si susseguono senza che le truppe straniere costituiscano un credibile deterrente.

In un contesto così instabile a prosperare non sono soltanto la violenza e il terrorismo, ma anche il business della droga. La condizione di arretratezza in cui versano le ex colonie francesi ha favorito il diffondersi della corruzione e del radicalismo, che trovano terreno fertile in un contesto con tassi altissimi di povertà e disoccupazione, dove i giovani quando non emigrano, finiscono facilmente per dedicarsi ad attività illegali e all’uso di sostanze stupefacenti. Allo stesso tempo è molto forte la contiguità tra gruppi terroristici e produttori di droga e narcotrafficanti.

Da tempo l’ONU ha lanciato l’allarme a proposito dell’aumento della produzione e del transito di sostanze illecite in Africa diretto verso l’Europa. Secondo gli esperti la situazione si è aggravata con la campagna militare francese del 2013, mentre i blocchi causati dalla pandemia di COVID-19 non hanno affatto ridotto l’attività dei trafficanti, che semmai l’hanno addirittura intensificata.

Le cifre del fenomeno

Secondo le statistiche delle Nazioni Unite, 275 milinioni di persone l’anno scorso hanno fatto uso di sostanze stupefacenti, il 22% in più rispetto al 2010.

L’ONU prevede che entro il 2030 il numero dei tossicodipendenti aumenterà di un ulteriore 11%, il 40% del quale sarà costituito da africani. Secondo gli analisti negli ultimi anni le reti di fornitori di cocaina in Europa sono diventate più efficienti e il numero di spedizioni è significativamente aumentato come dimostra un altro rapporto delle Nazioni Unite.

Alcune zone dell’Africa oltre ad essere aree di transito, a causa dell’abbondanza del prodotto disponibile, stanno diventando anche aree di consumo di cocaina: una parte di questa passa attraverso l’Africa occidentale e la costa atlantica, il resto viaggia verso il Nord Africa diretto verso il Mediterraneo.

Le rotte proibite dell’Africa

Sebbene stia intensificando la propria capacità produttiva, l’Africa, come detto, continua ad essere soprattutto una zona di transito in cui viene stoccata la droga proveniente dal Sud America in attesa di essere trasferita verso l’Europa, dove risiede il grosso dei consumatori finali. Le sostanze principali (come la cocaina) provengono da Colombia, Bolivia e Perù attraverso i porti di Brasile, Venezuela ed Ecuador.

Una parte consistente della merce proveniente dall’America Latina arriva in Senegal, Guinea, Guinea-Bissau e Costa d’Avorio prima di giungere a Bamako, nel Mali, dove viene presa in carico dagli islamisti locali, che a loro volta la rivendono ai narcotrafficanti del posto.

Come è possibile evincere dalle mappe elaborate dagli esperti dell’ONU, nel 2020, rispetto all’anno precedente, importanti sequestri di droga sono stati effettuati in nuovi paesi, tra cui Nigeria, Camerun, Angola, Zimbabwe e altri, segno che il raggio d’azione dei trafficanti si va allargando a macchia d’olio, mentre Conakry, la capitale della Guinea, continua ad essere uno dei santuari del narcotraffico del continente.

Una delle principali rotte di transito attraverso cui gli stupefacenti dall’Africa giungono in Europa è quella che passa per la Libia (e per l’Egitto), completamente in preda al caos dopo la fine del regime del colonnello Gheddafi. La Libia è stata una zona di transito per la droga sin dagli anni ’90, ma dopo il 2011 questo business è letteralmente esploso, perfettamente inquadrato nelle lotte di potere tra fazioni e clan rivali. Anche qui, come nel Sahel, lo stato di anarchia politica ha favorito l’ascesa di gruppi criminali, che gestiscono i carichi di droga provenienti dall’Algeria meridionale e dal Niger e li spediscono in Europa.

Ma non è solo la cocaina sudamericana ad affluire in Libia attraverso il Mali, anche l’eroina afghana batte gli stessi percorsi, con le città di Sebha e Ubari divenute ormai grandi centri logistici dei contrabbandieri del deserto diretti verso le coste libiche, che altri narcotrafficanti preferiscono invece raggiungere via mare costeggiando il Marocco e l’Algeria.

Dove sono le organizzazioni internazionali?

Di fronte a questi dati è inevitabile chiedersi cosa facciano le organizzazioni internazionali e per quali motivi il loro peacebuilding risulti del tutto inefficace. Uno degli obiettivi espliciti del progetto MINUSMA delle Nazioni Unite, per esempio, era proprio quello di stroncare il narcotraffico africano. Ma come evidenziato dagli autori del rapporto sul traffico di stupefacenti in Mali di The Global Initiative.

MINUSMA si è rivelato un fallimento. Inoltre lo stesso personale dell’organizzazione è stato ripetutamente accusato di legami con criminali e militanti islamisti.

Il vero problema è la vastità di interessi incofessabili collegati al business del droga, che spesso coinvolge anche politici e uomini d’affari apparentemente puliti. Oltre al traffico illegale, al contrabbando e alle molteplici zone grigie, ci sono numerose aziende farmaceutiche senza scrupoli dell’UE che utilizzano questi prodotti. Il caos politico favorisce, inoltre, l’ingerenza, anche economica, delle vecchie potenze coloniali, senza contare che quella stessa anarchia è il brodo di coltura ideale per le formazioni islamiste, sia per aggregare seguaci, sia soprattutto per finanziarsi attraverso attività e commerci illeciti.

La questione europea

In Europa le principali rotte del traffico di stupefacenti passano attraverso la Spagna, il Portogallo, il Belgio e i Paesi Bassi da dove poi la merce viene distribuita in tutta l’Unione Europea. Società fittizie e grossi pusher si occupano o di consegnarla  alle imprese farmaceutiche impegnate nella produzione di analgesici oppioidi o di venderla pura ai consumatori.

Gli Stati europei non sono in grado di risolvere il problema. Sono in troppi a beneficiare di questo sporco affare. D’altronde una parte rilevante del problema è rappresentata dall’approccio neocolonialista che paesi come Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti continuano ad avere nei confronti dell’Africa, depredando risorse e seminando conflitti e anarchia.

Nel giugno di quest’anno il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che le truppe francesi – circa 5.000 uomini- saranno ritirate dall’Africa e chiuse le basi militari nel Sahel. La decisione non sorprende: cresce nella regione un forte sentimento antifrancese, con un alto numero di proteste (in Senegal, Ciad, Mali, Niger, Mauritania ecc.) che chiedono il ritiro della missione militare.

Ordine e pace sono possibili in Africa soltanto se essa troverà partner disponibili a dialogare e ad operare su di un piano di parità e di reciprocità. Il continente cerca alternative e non è un caso se negli ultimi anni diversi Stati africani hanno avviato una forte cooperazione con la Cina (la “Nuova Via della Seta” assicura prestiti ed investimenti), la Russia (assistenza in funzione anti-jihadista, programmi energetici e di implementazione del settore agricolo) e altri. Le classi dirigenti africane dimostrano di essere consapevoli che solo uscendo dalla logica neocolonialista e sviluppando le proprie infrastrutture, potranno riprendere il controllo della situazione, attenuare disordine e illegalità, fornire una prospettiva diversa ai propri giovani, che non sia la tragica scelta tra povertà, violenza o emigrazione.

In ogni caso, il ritiro della Francia dall’Africa aprirà un vuoto che qualcuno cercherà di riempire. Se dovesse riempirlo la Turchia, che da tempo è coinvolta nel ricatto migratorio ai danni dell’Europa, sponsorizza i movimenti islamisti e tende a coprire il traffico di droga libico, i contraccolpi per i paesi del Vecchio Continente sarebbero tutt’altro che positivi.

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Guinea: se la Françafrique perde pezzi

Il recente colpo di stato in Guinea ad opera del tenente colonnello Mamady Doumbouyalo è la dimostrazione che la Francia sta perdendo la sua tradizionale influenza sulle sue ex colonie africane.

Il presidente Condé, deposto lo scorso 5 settembre, avrebbe potuto tranquillamente essere definito un “uomo della Francia”. Recatosi lì per ragioni di studio a soli 15 anni, aveva conseguito la laurea all’Università di Parigi, specializzandosi in sociologia e diritto pubblico, e aveva insegnato alla Sorbonne. Negli anni ’70 era stato accusato di aver infiltrato in Guinea un gruppo di agenti speciali armati allo scopo di effettuare azioni anti-governative con l’appoggio del Portogallo e per questo era stato condannato a morte in contumacia.

Tornato nel suo paese natale negli anni ’90, si era dato alla politica attiva, fondando un proprio partito politico, il Rassemblement du Peuple Guinée, con scarsi risultati in occasione delle elezioni del 1993 e del 1998.

La sua vicenda politica, in realtà, avrebbe potuto ispirare la trama di un film d’azione: un susseguirsi di ribellioni, proteste, arresti, culminato con il reclutamento di mercenari stranieri allo scopo di rovesciare il regime e l’inevitabile ritirata in Francia, dove sarebbe rimasto fino al 2005.

Solo nel 2010 Condé era riuscito finalmente a prendere il potere e diventare presidente, un presidente-monarca in realtà, ottenendo la rielezione nel 2015, anche grazie all’aiuto della società francese Bolloré Group e della sua controllata Havas

Secondo un politico di orientamento panafricanista del Benin, Kemi Seba, il rovesciamento di Condé, “buon amico di Sarkozy e Soros”, va letto come un duro colpo ai danni della Françafrique (https://www.facebook.com/KemiSebaOfficial/posts/391717145656024).

In un post pubblicato sul suo profilo Facebook mercoledì scorso, Kemi Seba ha affermato: “Prego ardentemente (e mi impegno ogni giorno) affinchè tutti i tiranni della regione francofona dell’Africa cadano a uno a uno e con loro la Françafrique”.

Quanto fosse importante per la Francia Condé è testimoniato dall’ampia copertura accordatagli dai media transalpini, che ne seguivano con attenzione le vicende politiche, laddove quelli britannici si sono sempre limitati a trattare dello sviluppo economico legato alla produzione e al commercio di bauxite.

In realtà anche Doumbouyalo, il leader dei golpisti e capo delle forze speciali guineano, è un ex legionario francese rientrato nel suo paese appena tre anni fa, di cui sono subito emersi gli ottimi legami con gli Stati Uniti d’America. Ma il tema vero su cui è utile riflettere è, più in generale l’incapacità che la Francia sta dimostrando a mantenere l’ordine e il controllo nelle sue ex colonie africane.

Sebbene molto vicino alla Francia, Condé aveva ritenuto indispensabile rafforzare la cooperazione economica con altri paesi: aveva creato stretti legami con la Turchia, corroborati da una salda amicizia personale con Erdogan, al punto che Soner Yalçın, commentando i recenti eventi in Guinea sulle colonne di Sözcü (https://www.sozcu.com.tr/2021/yazarlar/soner-yalcin/erdoganin-kardesine-darbe-6634475/), non ha esitato a definirli “un golpe contro il fratello di Erdogan”. Altri accordi assai redditizi erano stati conclusi soprattutto con la Cina (per un giro d’affari da 3 miliardi di dollari l’anno) e con la compagnia russa UC Rusal.

La strategia del presidente si dispiegava su due assi paralleli: da un lato mantenere uno stretto rapporto politico con Parigi, dall’altro esplorare nuove partnership basate principalmente sull’interesse economico.

La necessità di perseguire una simile politica del “doppio binario” testimoniava già di per sé il declino del sistema della Françafrique. A riprova di ciò ci sono le difficoltà incontrate da Bolloré, grande eminenza grigia della Françafrique insieme ai suoi subordinati di Havas, nel far eleggere negli ultimi anni i suoi candidati e i recenti rivolgimenti verificatisi nel Mali e nella Repubblica Centrafricana. Insomma, nuovi attori vanno progressivamente sostituendosi a Parigi nella regione.

Nonostante i legami tessuti con Cina, Turchia e Russia, Condé restava un uomo cresciuto e formatosi in Francia e le sue logiche di potere si intrecciavano con gli interessi geopolitici francesi. Lo stesso parziale discostamento da questi, non certificava altro che la sua necessità di individuare nuovi interlocutori alla luce delle difficoltà di Parigi a proteggere (e controllare) i suoi vassalli. Come si comporterà adesso Doumbouyalo è un enigma tutto da scoprire.

Turchia, Cina e Russia sono, invece, i nuovi protagonisti delle vicende dell’Africa occidentale e centrale un tempo francese. Ma mentre la crescente influenza di Pechino e Mosca non assume contorni particolarmente pericolosi per l’Europa, l’espansione del raggio d’azione turco suscita preoccupazioni: Ankara sta perseguendo una sua politica neo-coloniale fondata essenzialmente sul soft power, nel caso specifico esercitato attraverso l’islamizzazione della popolazione africana in modo da renderla compatibile con una logica imperiale neo-ottomana (il Diyanetİşleri Başkanlığı) e funzionale, al tempo stesso, al ricatto migratorio con cui la Turchia sollecita l’UE ogni volta che necessita di qualcosa.

Ma se la situazione precipitasse ed Erdogan desse seguito alle sue minacce, scatenando i flussi lungo la rotta del Mediterraneo centrale, l’Italia sarebbe in grado di sopravvivere a una nuova crisi migratoria?

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Dal Mondo

Elezioni in Marocco: le prospettive dopo il voto di domani


Giornata di votazioni domani in Marocco. L’8 settembre i cittadini si pronunceranno per il rinnovo del parlamento, dei consigli regionali e di quelli comunali.

Si tratta delle terze elezioni legislative della storia del Marocco dopo la riforma riforma costituzionale introdotta nel 2011, una delle eredità della Primavera araba. Sull’onda di proteste che ha toccato tutti i Paesi del Maghreb, anche il Marocco ha avviato una profonda revisione del proprio sistema di governo, che ha portato a un relativo riequilibrio dei poteri, in particolare riducendo le prerogative del re, Mohammed VI. Dal 2011 la costituzione marocchina prevede in particolare che il capo del governo sia nominato all’interno del partito che ha vinto le elezioni legislative.

L’8 settembre quindi quasi 18 milioni di elettori saranno chiamati a nominare i 395 parlamentari che li rappresenteranno nell’Assemblea nazionale. Alle urne, il Partito per la giustizia e lo sviluppo (Pjd) e il Partito per l’autenticità e la modernità (Pam) dovrebbero essere i principali partiti politici a competere per ottenere la maggioranza alla Camera dei rappresentanti. Eppure, alla luce del calo dei consensi che stanno registrano gli islamici del Pjd non è escluso che una sorpresa possa arrivare dal partito liberale dell’Rni del ministro e uomo d’affari Aziz Akhannouch o dallo storico partito di Istiqlal.

Il governo scelto dagli elettori marocchini domani sarà chiamato a gestire importanti investimenti pubblici. Sulla carta il Marocco ha tutte le carte in regola per scalare la vetta dei paesi emergenti. Tangeri, che ha affascinato generazioni di scrittori, è la vetrina e il simbolo delle trasformazioni economiche del Paese. La creazione di una zona franca e di un gigantesco porto sul Mediterraneo (Tanger Med), di autostrade, dell’alta velocità ferroviaria (unico nel continente africano ad avere una rete di linee ad alta velocità) in poco più di un decennio, l’ha trasformata in un importante polo logistico e industriale tra l’Europa e l’Africa.

L’arrivo della Renault ha permesso anche al settore automobilistico di decollare. Quella di Peugeot-Citroën, con sede a Kenitra, una cinquantina di chilometri a nord della capitale, Rabat, ha confermato l’attrattività del Regno con 700.000 veicoli che lasciano gli impianti di assemblaggio ogni anno. L’aeronautica non è esclusa: embrionale all’inizio del millennio, il settore contribuisce con oltre 1,5 miliardi di euro alle esportazioni marocchine, quelle verso la Francia in costante aumento.

Al di là di questi elementi, le elezioni dell’8 settembre, per il quale sono stati schierati quasi 4.500 osservatori nazionali e stranieri, mostra un Marocco offensivo a livello diplomatico, industriale ed economico. Inoltre il Paese è tra i primi in Africa per vaccinazione contro il Covid-19 con il 60 per cento della popolazione vaccinata con almeno la prima dose.

Infine si registra in questa tornata elettorale una maggiore partecipazione femminile. La questione del posto dato alle donne in politica è stata presa di petto dalla Costituzione del 2011. Un passo avanti derivante da un processo di riforma iniziato nei primi anni 2000 e che ha riguardato in particolare il Codice della famiglia e il posto delle donne nella società nel 2004. Nel 2011 la riforma della Costituzione ha elevato, tra l’altro, l’uguaglianza di genere a principio costituzionale, consolidando così i risultati della riforma del 2004. Tutto questo si è tradotto con l’introduzione delle quote rosa ed un aumento dei seggi destinati alle donne dal parlamento ai consigli comunali.

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Dall'Italia

Meloni sotto attacco ma Galli della Loggia non ne azzecca una

L’analisi dell’europarlamentare Vincenzo Sofo

Il fatto che Fratelli d’Italia sia diventato il primo partito d’Italia in termini di consenso popolare pare abbia mandato nel panico l’establishment della penisola. Altrimenti non si spiega il grossolano attacco lanciato dalla colonne del Corriere della Sera da un intellettuale come Ernesto Galli della Loggia, incappato – forse preso dalla foga di dover improvvisare un “j’accuse” a priori alla leader di FDI – in una serie di grossolane gaffe.

Così l’europarlamentare di Fratelli d’Italia, Vincenzo Sofo, introduce per Affaritaliani.it la vicenda che vede contrapposti Ernesto Galli della Loggia e Giorgia Meloni

La tesi di Galli della Loggia è quella banalità trita e ritrita relativa al fatto che se vuole andare al governo la destra deve prima rendersi presentabile, depurandosi delle sue idee e cambiando classe dirigente. Insomma, deve smettere di essere destra e – meglio ancora – diventare sinistra. Poichè, ovviamente, è la sinistra ad avere l’unica classe dirigente autorizzata a governare il nostro Paese. E poco importa se sia la stessa classe dirigente che ci sta mandando in rovina.

Galli Della Loggia articola dunque le sue argomentazioni su tre “insegnamenti” che la Meloni dovrebbe apprendere. Peccato che tutte e tre le sue lectio magistralis siano imperniate su contenuti piuttosto scadenti, talvolta addirittura falsi.

Il primo insegnamento riguarda il collocamento internazionale. L’accusa mossa alla Meloni è di avere alleanze con i governi di Russia, Ungheria e Polonia (definiti regimi) definite politicamente inutili e compromettenti, basate solo sulla condivisione delle battaglie anti lgbt, anti immigrazione e pro vita. Quando invece dovrebbe creare alleanze con Spagna e Inghilterra. Se Galli Della Loggia avesse seguito con attenzione le dinamiche europee avrebbe tuttavia scoperto che le tre battaglie sopra citate rappresentino degli temi cardine dell’agenda della Commissione europea, che i primi a coltivare i rapporti con la Russia si chiamano Merkel e Macron, che Ungheria e Polonia – oltre a rappresentare il sottogruppo (Visegrad) probabilmente più influente della UE – sono considerati degli interlocutori importantissimi da parte rispettivamente di Germania e USA e che il partito dei Conservatori europei del quale la Meloni è leader ha solide relazioni sia in Inghilterra con i conservatori attualmente al governo sia in Spagna con uno dei partiti più importanti che si chiama Vox.

Il secondo insegnamento riguarda il modo di fare opposizione. L’editorialista prende ad esempio i risultati del Rassemblement National nelle recenti elezioni regionali in Francia per dimostrare che fare la destra di opposizione, i “populisti” secondo lui, non paghi. Peccato che fa riferimento a un risultato elettorale che chiunque conosca minimamente la politica francese considerava scontato poichè figlio di un sistema elettorale maggioritario a doppio turno costruito apposta – a proposito di regimi – per impedire alle forze politiche sgradite di salire al governo. E ciò è accaduto, a proposito di pentimenti da compiere, nonostante il Rassemblement National abbia avviato un percorso di progressiva de-destrizzazione.

Il terzo insegnamento infine è quello più grottesco. Galli della Loggia tira fuori la classica carta della disperazione usata dalla sinistra: “la delegittimazione che promana dal loro passato”. Per provare a trascinare la Meloni nel calderone della Seconda Guerra Mondiale, la collega in modo rocambolesco a Marine Le Pen la quale a suo dire ha il torto di simpatizzare per il maresciallo Petain invece che per De Gaulle. Dimostrando per la terza volta scarsa conoscenza dei temi che utilizza per argomentare. Infatti Marine Le Pen, come ha giustamente ricordato la stessa Meloni nella sua lettera odierna di risposta, non si è mai definita petainista ma anzi gollista. E peraltro nell’ambito di una divisione che non riguarda il conflitto mondiale bensì la Guerra d’Algeria. Chi invece ha elogiato Petain nell’ambito delle guerre, ditelo a Galli della Loggia, invece è il suo amato Macron.

Ad “arrampicarsi sugli specchi manipolando o nascondendo la realtà” pare proprio che sia stato dunque Galli della Loggia. Che, probabilmente andato ancor più nel panico essendosi accorto della pochezza contenutistica del suo attacco, è scaduto ancora più in basso: invitando provocatoriamente la Meloni, come prova del suo essere presentabile, a far picchiare i sostenitori di Forza Nuova o Casa Pound.

A voi le conclusioni.

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L’Economic Forum di San Pietroburgo: una potenziale alternativa a Davos

Hanno preso il via oggi, 2 giugno, i lavori del St. Petersburg International Economic Forum (SPIEF). Prenderanno parte alla convention oltre 5.000 persone, che, considerando il contesto pandemico in cui si celebra, si presenta come uno dei più grandi eventi internazionali degli ultimi anni, soprattutto se lo si confronta con il World Economic Forum di Davos che quest’anno si è tenuto in formato online, mentre la riunione speciale del WEF, prevista dal 17 al 20 agosto a Singapore, è stata annullata lo scorso 17 maggio proprio a causa del Covid.

Il fatto che la Russia sia riuscita ad organizzare un simile evento offline, dimostra come questo paese sia riuscito a reagire al coronavirus più efficacemente rispetto ad altre potenze mondiali. Ma non si tratta dell’unico elemento che giustifica una messa a confronto tra SPIEF e WEF.

Il WEF è una piattaforma di ispirazione globalista molto apprezzata dai potenti di tutto il mondo che fanno a gara per parteciparvi. Lo stesso progetto “Great Reset” lanciato dal fondatore del WEF Klaus Schwab si presenta come l’agenda cui si uniformeranno le élite globaliste nei prossimi decenni. Lo SPIEF, invece, si configura come una realtà profondamente diversa: si tratta, infatti, di una piattaforma di dialogo promossa da uno Stato sovrano (la Federazione Russa) che non nasconde l’intenzione di agire a difesa dei propri interessi nazionali. Anche per questo, sin dalla prima edizione tenutasi nel 2014, l’Occidente ha tendenzialmente snobbato il Forum di San Pietroburgo.

Ciononostante esso ha catturato, da subito, l’interesse di quelle realtà imprenditoriali non condizionate da cliché ideologici e che vedono nella Russia una realtà significativa nel contesto globale e un partner redditizio. Il paese occupa una posizione chiave nello spazio eurasiatico ed attira, inevitabilmente, l’attenzione di tanti uomini d’affari non solo europei ed asiatici, ma anche americani, o almeno di coloro che non subiscono il fascino dei giochi dei politici volti a intraprendere una nuova stagione di Guerra Fredda.

Non a caso la maggior parte dei partecipanti proviene, come sempre, proprio dagli Stati Uniti. La delegazione del Qatar, uno dei paesi più ricchi del Golfo Persico, è composta da ben duecento persone; tra gli ospiti provenienti da tutto il mondo, molti arrivano da Cina, Germania, Regno Unito, Francia e Italia. Venerdì è previsto l’intervento del presidente russo Vladimir Putin.

Il titolo dell’edizione di quest’anno recita: “Di nuovo insieme. L’economia della nuova realtà”. Si discuterà, ovviamente, dell’impatto della crisi pandemica sulla situazione mondiale. I vari tavoli di discussione e le sessioni di dibattito si focalizzeranno, però, su altre questioni più interessanti. L’influenza dei teorici del “Great Reset” è in ogni caso evidente: le tematiche ambientali e lo sviluppo di politiche volte alla riduzione delle emissioni di carbonio per fronteggiare il surriscaldamento del clima saranno all’ordine del giorno. Ci saranno, però, ben tre focus dedicati al principio di sovranità, in cui verranno approfondite le seguenti questioni: “Sovranità storica e sviluppo economico”, Difesa dello spazio digitale unico vs. lotta per la sovranità digitale”, “Sovranità digitale e Cybersecurity”.

Discutere su tematiche del genere al World Economic Forum sarebbe semplicemente impossibile e questo significa che il Forum russo si propone come una reale alternativa al paradigma elaborato dalle élites globaliste. Sarebbe auspicabile che non solo in Russia, ma anche in Europa il tema della sovranità potesse essere messo in relazione alle prospettive di rilancio economico.

Dunque lo SPIEF si pone come modello non solo alternativo, ma anche replicabile altrove ed è significativo che il presidente del World Economic Forum in persona, Borge Brende, abbia confermato la propria presenza a San Pietroburgo: vuol dire che i teorici del globalismo prendono questa piattaforma molto sul serio.

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Hajib e le menzogne di al Qaeda

Il terrorista Mohamed Hajib Abu Omar, originario della città di Tiflet in Marocco, può competere con i noti truffatori Victor Lusting e Gregor MacGregor, avendo trovato terreno fertile in Germania. Hajib, trasformatosi in un talentuoso attore politico, è l’ideatore di macchinazioni non meno complesse o sottili dei trucchi di MacGregor. Il mondo intero ricorderà che quest’uomo, legato ad al Qaeda, come l’unico truffatore della storia ad aver venduto un “pacchetto Miswak” (la radice di una pianta desercita usata da Maometto per pulirsi i denti) alla Repubblica Federale di Germania per più di un milione e mezzo di euro.

Qual è la storia dietro il Miswak più costoso del mondo? L’ex estremista Boushata Al-Sharif, imprigionato nella stessa ala della prigione di Hajib nel 2011, ha detto di aver usato piante di Miswak di colore scuro per provocare false tracce di violenza sul suo corpo in modo da denunciare di aver subito false torture fisiche.

Questo è il trucco che è stato usato per raggirare la Germania e i suoi servizi che hanno creduto a questa menzogna per ragioni geostrategiche, secondo i media internazionali. Questa vicenda è stata usata per una guerra di intelligence, ben sapendo che attraverso un investimento di pochi centesimi di euro, che corrisponde al prezzo del Miswak, che il qaedista ha beneficiato della promessa di ricevere una lauta ricompensa dallo stato tedesco.

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Approfondimenti

Bellingcat all’attacco dei sovranisti europei ed americani

In queste settimane Bellingcat ha pubblicato il suo rapporto annuale relativo al 2020.

Per chi ancora non la conoscesse, Bellingcat è una realtà molto particolare: ufficialmente è un sito di giornalismo investigativo che negli ultimi anni ha acquisito una crescente influenza. Fondata nel 2014 dal blogger inglese Eliot Higgins, ex impiegato di una società finanziaria britannica che negli anni immediatamente precedenti si era fatto conoscere come animatore del blog Brown Moses, grazie alle sue inchieste rivolte in particolare contro la Russia e la Siria si è fatta notare da un pubblico sempre più vasto di esperti e lettori. Oggi è un punto di riferimento autorevole, con un’organizzazione ben strutturata e decine di collaboratori.

Paradossalmente, però, l’articolo più letto dell’anno scorso, non era dedicato ad inchieste tese a smascherare oscure trame promosse dal Cremlino o da Damasco. Intitolato The Boogaloo Movement Is Not What You Think, esso aveva per oggetto i gruppi di destra americani, avversari del Partito Democratico e dei movimenti di estrema sinistra come Antifa e BLM (https://www.bellingcat.com/app/uploads/2021/05/Bellingcat-Annual-Report-2020-1.pdf).

Bellingcat è un’entità strettamente collegata alle agenzie e alle fondazioni attraverso cui si esercita l’attività delle strutture di intelligence americane e britanniche. Ad esempio essa riceve finanziamenti dalla Fondazione americana National Endowement for Democracy e dall’inglese Zinc Network, diretta emanazione del Ministero degli Esteri del Regno Unito (https://www.bellingcat.com/app/uploads/2021/05/Bellingcat-Annual-Accounts-2020-1.pdf).

Di fatto, Bellingcat appare come una piattaforma nell’ambito della quale si “incontrano” e collaborano il deep state dell’anglosfera e la galassia dell’estremismo di sinistra. I suoi esponenti principali – lo stesso Eliot Higgins e Jason Wilson – sostengono apertamente i gruppi radicali e, in pratica, ne fanno parte. Di contro collaborano con Bellingcat numerosi ex ufficiali dell’esercito e dell’intelligence degli Stati Uniti e della Gran Bretagna (https://www.mintpressnews.com/bellingcat-intelligence-agencies-launders-talking-points-media/276603/)

In questa fase Bellingcat sta riposizionando i propri riflettori, puntando sempre più l’attenzione sulle organizzazioni sovraniste occidentali. Lo dimostra l’intensificazione dell’Anti-Equality Monitoring Project (https://www.bellingcat.com/resources/2021/05/12/an-update-from-bellingcats-anti-equality-monitoring-project/) e il numero crescente di pubblicazioni rivolte contro i sostenitori di Donald Trump.

In conclusione, una simile evoluzione dimostra come gli elementi dell’intelligence che si nascondono dietro il paravento rappresentato da Bellingcat intendano rivolgere la propria azione non più soltanto contro i nemici esterni dell’egemonia globalista occidentale, ma anche contro l’opposizione interna. In pratica, questa struttura verso cui affluiscono i soldi dei contribuenti americani ed europei ora prende a bersaglio gli stessi cittadini di quei paesi.

Franco Degli Esposti

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Dal Mondo News

Sahara: è allarme nei campi profughi di Tindouf

Un webinar fa chiarezza su quanto sta avvenendo nella regione

La presenza dei campi profughi sahrawi a Tindouf, nel sud dell’Algeria, rappresenta una minaccia per la stabilità della regione del Sahel e dell’Europa. E’ quanto è emerso da un seminario di studi tenuto da esperti della regione del Sahara tramite un webinar dal titolo: “L’Assurda controversia sul Sahara marocchino”, organizzata dal portale Valoreimpegnocivico.it.

Hanno preso parte al seminario di studi accademici, esperti legali e professionisti dei media i quali hanno ammonito che l’esistenza dei campi di Tindouf rappresenta non solo una minaccia per la stabilità della regione del Sahel e del Sahara, ma anche per l’Europa nel suo insieme.

I partecipanti a questo seminario, moderato ieri dall’esperto di affari legali Gabriele Mazzanti hanno confermato che l’esistenza dei campi di Tindouf e delle milizie armate del Polisario in collusione con le organizzazioni jihadiste costituisce una minaccia alla stabilità, osservando che il tasso di povertà, la negazione della libertà e dei diritti fondamentali e la disperazione prevalente tra i giovani che vivono in condizioni difficili nei campi di Tindouf, il che li rende facile preda del reclutamento da parte di gruppi terroristici che operano nella regione del Sahel.

In questo contesto, Federico Prizzi, professore al Pont Institute for Cultural and Anthropological Research, ha sottolineato, in un intervento dal titolo “Il Marocco in prima linea nella cooperazione internazionale nella lotta al terrorismo”, che: “La sovrapposizione tra le attività di criminalità, le organizzazioni terroristiche e separatiste rappresentano gravi minacce che incidono direttamente sulla sicurezza della regione e dell’Europa nel suo insieme. Il Marocco è un partner essenziale per l’Italia, l’Europa e la Nato nella lotta al terrorismo; il Re Mohammed VI ha dato nuova linfa alla ristrutturazione dell’intelligence marocchina per far fronte all’ascesa del flagello terroristico. Per questo il Marocco è il primo Paese africano a partecipare alle operazioni di contrasto allo Stato Islamico. Va ricordato inoltre che la creazione della fondazione Ulema per contrastare il radicalismo è stata un’esperienza che ha dato i suoi frutti. Il radicalizzato Al Sahraoui, affiliato a Daesh nel 2017, si è radicalizzato in Mauritania presso la moschea Ibn Al Abass e ha lasciato il Polisario per intraprendere il jihad”.

Questo esperto italiano ha sottolineato che gli sforzi del Marocco nella lotta al terrorismo hanno permesso, in larga misura, di ridurre il rischio di atti terroristici, sottolineando che il Regno è un partner centrale nella cooperazione internazionale per combattere questo fenomeno e per contrastare potenziali minacce terroristiche in Europa e per rafforzare la sicurezza e la stabilità delle immediate vicinanze del continente e il raggiungimento dello sviluppo sostenibile in Africa.

Marco Bertolini, generale italiano ed ex comandante delle operazioni militari, ha rilevato in un intervento dal titolo “Un’analisi geostrategica del bacino del Mediterraneo” che la regione del Sahel è una regione instabile in cui dilagano molte attività illegali come la droga e il traffico di esseri umani.

Da parte sua, il professore universitario e giornalista italiano, Alessio Postiglione ha argomentato partendo dal suo libro, scritto con Massimiliano Boccolini, “Sahara, deserto di mafie e jihad”, notando come operi anche sullo scacchiere mediorientale il populismo: la ribellione delle masse inurbate contro l’establishment di movimenti indipendentisti tradizionalmente secolaristi, diventati autoreferenziali e spesso corrotti, ha portato le prime ad essere sedotte dalle sirene dello jihadismo. È il caso di Abu Waleed al Saharawi, che da ufficiale del Polisario è diventato una star del firmamento jihadista, passando per varie sigle terroriste ed approdare infine al Daesh. Le economie dei movimenti separatisti sono spesso intrecciate con quelle di mafie e jihad. Questa osmosi spiega perché alcuni movimenti, lungi dal rappresentare gli interessi di gruppi etnici, sono l’anticamera della corruzione e, comunque, permeabili allo jihadismo”.

Corrado Corradi, capo del comitato direttivo della scuola italiana “E. Mattei” di Casablanca, ha confermato che la storia conferma che il Sahara è sempre stato sotto la sovranità marocchina. In un intervento sul tema “Storia del Marocco e la questione del Sahara, secondo lo storico francese Bernard Logan”, ha menzionato che i legami tra il Marocco e le sue “regioni sahariane” risalgono all’era dello stato degli Almoravidi (XI secolo), evidenziando che numerosi studi di esperti internazionali confermano questo fatto. Citando l’esperto e storico francese Bernard Logan, autore del libro “History of Morocco from the Origins to Today”, Corradi ha spiegato che prima del periodo coloniale, il Sahara era economicamente, politicamente e religiosamente legato al Marocco, il cui splendore si estendeva dal Tangeri, Fez e Marrakech fino alle rive del Senegal e del Niger. Ha aggiunto che le richieste del Marocco, quindi, si basano su “legittimi diritti storici” confermati da eventi, documenti storici e accordi.

Da parte sua, il coordinatore nazionale della Rete delle associazioni comunitarie marocchine in Italia, Yassin Belkassem, ha affermato che l’Algeria è “l’unico Paese al mondo che ospita un gruppo armato che gestisce dei detenuti nei campi, isolati dal mondo, dove vengono commessi crimini come omicidio, rapimento e furto di aiuti umanitari internazionali e reclutamento militare di bambini dopo la loro formazione nelle caserme dell’esercito algerino. D’altra parte, Belkassem ha detto:

“Chiediamo all’Italia di aprire un consolato nel Sahara marocchino, come hanno fatto molti paesi amici del Regno del Marocco, e di seguire l’esempio degli Stati Uniti con il loro chiaro riconoscimento di il Sahara marocchino e appoggiare la proposta marocchina di risolvere la disputa inventata sull’integrità territoriale del Regno, sulla falsariga del versante italiano dell’Alto Adige”.