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Ambasciatore Usa: la nuova mappa del Marocco include il Sahara

E’ la nuova mappa adottata dagli Stati Uniti

Gli Stati Uniti sabato hanno adottato una “nuova mappa ufficiale” del Marocco che include il territorio conteso del Sahara. Lo ha annunciato l’ambasciatore Usa a Rabat, David Fischer.

“Questa mappa è una rappresentazione tangibile dell’audace proclamazione del presidente Donald Trump che riconosce la sovranità del Marocco sul Sahara occidentale”, ha detto l’ambasciatore Fischer parlando ai giornalisti.

Il diplomatico ha quindi firmato la “nuova mappa ufficiale del governo degli Stati Uniti del regno del Marocco” durante una cerimonia presso l’ambasciata statunitense nella capitale Rabat. La mappa sarà presentata al re del Marocco Mohammed VI, ha aggiunto.

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Trump riconosce la legittimità del Marocco sul Sahara

L’annuncio è stato dato dalla Casa reale di Rabat

Il Marocco ha confermato l’annuncio diffuso dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, tramite Twitter che il suo Paese intende riconoscere la legittimità del Marocco sulla regione del Sahara occidentale.

Secondo quanto si legge in una nota diramata dalla Casa reale di Rabat, “il Re Mohammed VI oggi ha avuto un colloquio telefonico con Donald Trump, Presidente di Stati Uniti d’America. Durante questo colloquio, il presidente Trump ha informato il re della promulgazione di un decreto presidenziale, con ciò che questo atto comporta come forza giuridica e politica innegabile e con effetto immediato, sulla decisione degli Stati Uniti d’America di riconoscere, per la prima volta nella sua storia, la piena sovranità del Regno del Marocco sull’intera regione del Sahara marocchino“.

Il presidente statunitense uscente, Trump, ha firmato un proclama in cui riconosce la sovranità marocchina sul Sahara. Ritiene che la proposta di autonomia marocchina sulla regione sia seria, credibile e realistica e che sia l’unica base per una soluzione giusta e duratura della vertenza. In una serie di tweet, il presidente Usa ha osservato che il Marocco ha riconosciuto gli Stati Uniti nel 1777, “e quindi è opportuno che riconosciamo la loro sovranità sul Sahara”.

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Fine della detenzione libica per i russi Shugaley e Sueifan

I sociologi russi erano detenuti nel carcere libico di Mitiga

Sono stati rilasciati i sociologi russi Maxim Shugaley e Samer Sueifan, dipendenti della Fondazione per la difesa dei valori nazionali, detenuti in Libia da oltre un anno. Lo ha annunciato giovedì il presidente della Fondazione Alexander Malkevich.

La notizia, secondo quanto riportato dai media russi, è stata confermata dal vice ministro degli Esteri russo Mikhail Bogdanov, rappresentante speciale del presidente russo per il Medio Oriente. Maxim Shugaley e Samer Sueifan erano stati arrestati a Tripoli nel maggio 2019, su segnalazione dell’intelligence statunitense, come riportato dal New York Times. I cittadini russi erano detenuti da 573 giorni nella prigione di Mitiga, sotto il controllo del gruppo radicale salafita RADA, vicino a Fathi Bashagha, il ministro dell’Interno del Governo di Accordo Nazionale (GNA) libico.

Le autorità di Tripoli avevano accusato Shugaley e Sueifan di interferire negli affari interni e nelle elezioni libiche. Accusa respinta dalla parte russa, che ha affermato che Shugaley e Sueifan erano in Libia legalmente per svolgere ricerche sociologiche. Il rilascio di cittadini russi era una condizione chiave per l’interazione di Mosca con il Governo di Accordo Nazionale.

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Così Tripoli finisce nelle mani dei fondamentalisti islamici

Negli ultimi giorni sono giunte numerose segnalazioni circa un insolito attivismo da parte del gruppo islamista radicale RADA (Special Deterrence Forces). Diversi profili di utenti libici di Twitter hanno riferito che “per ordine del terrorista Abdul Rauf Kara, le Special Deterrence Forces hanno istituito diversi checkpoint a Tripoli”. Molti in Libia ritengono che Kara stia pianificando un’iniziativa su vasta scala per tentare addirittura di assumere il potere nella capitale.

Sembra, tra l’altro, che la sera del 27 novembre un convoglio armato delle Special Deterrence Forces sia stato avvistato per le strade di Tripoli.

Nello stesso giorno, in città, sono stati segnalati scontri tra la milizia RADA e uomini della Brigata Al-Samud scaturiti da contenziosi di natura economica.

Lotta per il potere

Le manovre militari segnalate a Tripoli non hanno nulla a che fare con possibili minacce esterne. Dallo scorso agosto, infatti, vige in Libia il cessate il fuoco. Le truppe del generale Khalifa Haftar, comandante dell’Esercito Nazionale Libico (LNA), non hanno intrapreso alcuna nuova offensiva contro la Tripolitania. Questi movimenti e gli scontri armati si spiegano solo supponendo che nella capitale stia prendendo il via una nuova lotta per il potere e per l’accaparramento delle risorse finanziarie tra le varie milizie che vi operano.

All’inizio di novembre si è tenuto a Tunisi, sotto l’egida delle Nazioni Unite, il Libyan Political Dialog Forum (LPDF), allo scopo di costituire un nuovo governo di transizione. Sebbene il Forum non sia riuscito a individuare una nuova leadership e non sia stato in grado di definire nemmeno le candidature degli aspiranti alle cariche di ministro, di primo ministro e di membro del Consiglio Presidenziale, il negoziato continua in formato virtuale. Ciò significa che la scelta dei componenti del governo che dovrà portare il paese alle elezioni (che dovrebbero tenersi l’anno prossimo) è ancora all’ordine del giorno.

Uno dei principali aspiranti alla carica di premier è l’attuale ministro degli Interni del Governo di Accordo Nazionale (GNA) Fathi Bashagha. Questi è da poco rientrato dalla Francia: una tappa importante per la sua “campagna elettorale”, secondo gli esperti.

E mentre Bashagha volava a Parigi, i suoi sostenitori in Libia si davano un gran da fare: i 35 delegati al Forum che a Tunisi si erano espressi a favore della sua candidatura a primo ministro hanno recentemente proposto un sistema di voto da remoto tramite Zoom per superare l’impasse. Molti hanno criticato una simile procedura in quanto facilmente manipolabile.

Mettendo insieme i vari frammenti del mosaico, il quadro che emerge risulta piuttosto chiaro: da una parte l’attivismo delle milizie vicine al ministro degli Interni nella capitale, dall’altra gli sforzi di Bashagha per acquisire sostegno internazionale, infine i tentativi dei delegati al Forum suoi alleati di procedere al voto ad ogni costo; tutto lascia credere che a Tripoli si stiano intensificando gli sforzi per ottenere un cambio al vertice, se non, addirittura, per organizzare un colpo di Stato.

La minaccia terroristica

In questo contesto sono proprio le Forze Speciali di Deterrenza della RADA a svolgere un ruolo chiave. Esse potrebbero garantire a Bashagha il controllo di Tripoli qualora la popolazione o le altre milizie si rifiutassero di riconoscerlo quale nuovo leader del governo.

Si tratta di una unità tradizionalmente legata al ministro degli Interni del GNA, guidata, come già detto, dal famoso comandante islamista Abdul Rauf Kara. Attualmente, essa è uno dei gruppi armati più influenti di Tripoli.

Qualora Bashagha salisse al potere RADA finirebbe per diventare la milizia egemone della capitale, nonostante si tratti di un’organizzazione accusata di rapimenti, torture e veri e propri massacri di gruppi rivali.

Nonostante il suo legame ufficiale con il Ministero degli Interni del governo ufficialmente riconosciuto dall’ONU, RADA è anche accusata di traffico di esseri umani, contrabbando e terrorismo, nonché di aver utilizzato minori come bambini-soldato e di aver rapito decine di migranti africani per ottenerne il riscatto.

Il procuratore della Corte penale internazionale, Fatou Bensouda, ha dichiarato di continuare “a ricevere informazioni in merito ai gravi crimini” commessi nella prigione di Mitiga, nei pressi di Tripoli, controllata dalle Forze speciali di deterrenza, che la utilizzano “per detenere arbitrariamente civili in condizioni disumane, sottoponendoli anche a tortura”.

Nella stessa Tripoli si sono tenute proteste in piazza contro la detenzione illegale di prigionieri da parte del gruppo RADA. Ma il Ministero degli Interni del GNA continua a tacere. Ci sono, anzi, fotografie in cui Abdul Rauf Kara compare tra i partecipanti alle riunioni convocate al Ministero.

Tra i “successi” del gruppo vanno ricordati il rilascio ad agosto di un militante dell’ISIS (che in seguito a sterminato tutta la sua famiglia) e le accuse di aver sparato in modo indiscriminato contro manifestanti disarmati a Tripoli.

D’altronde i miliziani di Kara non riconoscono la Legislazione Internazionale sui Diritti Umani, avendo come loro principale obiettivo l’instaurazione della Sharia (secondo l’interpretazione salafita).

La vendetta islamista

L’ascesa al potere di Fathi Bashagha sarebbe un autentico trionfo per la RADA, che grazie al suo sostegno è già diventata in questi anni un’organizzazione estremamente ramificata.

Da forza radicata essenzialmente in Tripolitania, essa potrebbe divenire un’organizzazione fondamentalista islamica estesa su tutto il territorio nazionale.

Si tratta di un’eventualità che dovrebbe suscitare grande preoccupazione in Europa e particolarmente in Italia. Avere come vicino un paese guidato da esponenti dell’Islam radicale costituisce un pericolo, non solo perché la Libia potrebbe trasformarsi in una piattaforma logistica per il trasferimento di elementi radicali nel Vecchio Continente (cosa che in parte già avviene), ma anche perché essa eserciterebbe sulla popolazione immigrata un’influenza ideologica più intensa, in grado di aumentare la diffusione del fondamentalismo islamista. Senza contare il fatto che tutto questo produrrebbe una reazione degli altri gruppi armati presenti nel paese, facendolo ripiombare nella guerra civile.

Nel settembre 2018, ad esempio, l’influente predicatore salafita Majdy Haffala, con il sostegno del leader di RADA, ha emesso una fatwa, in virtù della quale la città di Tarhuna, in Tripolitania, è stata dichiarata “città di Kharigiti” (eretici), quindi “nemici dell’Islam”: è facile immaginare cosa potrebbe accadere se questi estremisti aumentassero ulteriormente il loro potere. La Libia sprofonderebbe in un caos generalizzato, divenendo terreno fertile per l’ISIS e altre organizzazioni terroristiche.

I gruppi salafiti sono attualmente osteggiati da tutte le altre fazioni libiche – tanto quelle vicine al GNA, quanto quelle legate all’LNA – ma con Bashagha premier potrebbero acquisire una posizione centrale, sia per la speciale vicinanza al ministro, sia perché questi senza l’appoggio di RADA non sarebbe in grado di controllare Tripoli. Infatti, allo stato, solo i gruppi armati di Misurata, tra quelli impegnati sul terreno, gli sono fedeli, a parte RADA.

Va, pertanto, scongiurata a tutti i costi una vittoria in Libia dell’Islam radicale, onde evitare che la minaccia terroristica contro l’Europa aumenti fino a raggiungere livelli incontrollabili.

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Il leader del movimento di opposizione armeno Adekvat: “Ci hanno pugnalato alle spalle”

Arthur Danielyan è il leader del movimento di opposizione armeno Adekvat. Ha servito come volontario nella guerra del Nagorno Karabakh. In un’intervista a FWM ha raccontato dei recenti disordini politici in Armenia e dell’accordo tra l’Armenia e l’Azerbaijan. Danielyan era stato precedentemente arrestato dalla polizia armena a causa della sua attività politica.

Danielyan, lei è stato arrestato dalla polizia il 14 novembre. Perché?

Sono accusato di incitamento alla violenza e uno dei miei post su Facebook è stato utilizzato a supporto di ciò. Nel post io ho fatto una semplice constatazione: chi adesso è al potere non vivrà a lungo a causa del tradimento compiuto per arrivarci. Questa era, ed è, la mia previsione riguardo ciò che avverrà in Armenia dopo la vergognosa sconfitta nella guerra contro la Turchia e l’Azerbaijan.

Quali sono le accusato mosse al suo movimento?

Negli ultimi due anni e mezzo siamo stati accusati di diffondere disinformazione e allarmismo. Tuttavia, quando è emerso che ogni allarme da noi lanciato si è rivelato fondato, l’accusa è stata cambiata: ora dicono che “diffondiamo odio”. La verità è che nella primavera del 2018 in Armenia ha avuto luogo un colpo di stato sponsorizzato da potenze straniere. Lo scopo del golpe era demolire le nostre istituzioni e dare il via a un’escalation militare. E’ successo e abbiamo perso. In realtà non abbiamo mai avuto la possibilità di contrattaccare: i nostri nemici erano, allo stesso tempo, di fronte a noi e tra di noi, fin nella nostra capitale.

Il governo armeno sta dando prova di grande nervosismo.

Finora sono riusciti a superare molteplici scandali e crisi. Anche il fatto che l’Armenia abbia combattuto durante l’epidemia di Coronavirus ha contribuito a non causare disordini politici principalmente perché l’opposizione si è svolta sui social. Questa situazione è fonte di grande nervosismo per i politici: temono che gli armeni smettano di credere alla propaganda dei media mainstream e scendano per le strade.

L’accordo di pace con l’Azerbaijan riguardante Arztakh (Nagorno Karabakh) per gli armeni rappresenta una sconfitta e il primo ministro Pashinyan è considerato il responsabile da molte persone. Cosa ha sbagliato?

Innanzitutto, non si tratta di una sconfitta ma di una resa. Ovviamente, Pashinyan è il principale responsabile, indipendentemente dalle azioni da lui effettivamente compiute. L’oltraggio più grande è che Pashinyan abbia continuamente operato affinché questa resa avesse luogo. Non appena è entrato in carica ha rinunciato a ogni singolo risultato ottenuto dall’Armenia durante i colloqui di pace nell’ambito del Gruppo OSCE di Minsk. Inoltre, ha implorato i favori di Aliyev in modo da consolidare la sua presa sull’Armenia, e quest’ultimo ha acconsentito a scapito dell’indebolimento delle nostre linee di difesa. Mentre era in carica, Pashinyan ha vanificato ogni tentativo messo in atto dalle istituzioni, politiche e civili, che erano intervenute. Una volta completata la distruzione interna, ha dato il via libera ad Aliyev per attaccare, ponendo fine al processo di negoziazione per la  pace.

Inoltre, durante i combattimenti ha trattenuto truppe e munizioni lontani dalla linea del fronte e ha continuato a diffondere disinformazione al fine di impedire alla gente di prendere posizione. Infine, ha rifiutato ogni singola offerta di mediazione da Mosca che avrebbe potuto fermare la guerra in una fase molto precedente. In sostanza, ha aspettato fino al punto di non ritorno in modo che non ci fosse alternativa alla resa. Ogni singola affermazione che ho fatto finora è suffragata da numerose testimonianze.

Pashinyan è visto da molti anche come un “uomo di Soros” …

Beh, la maggioranza assoluta dei membri del suo team, in un modo o nell’altro, sono sponsorizzati da fondi affiliati a George Soros. Inoltre, la resa armena è stata a lungo propugnata proprio da lui. Soros stesso aveva invitato la comunità internazionale a supportare Erdogan e Aliyev a qualsiasi costo. Per tutto il tempo il disegno distruttivo dei “fedeli di Soros” vicini a Pashinyan è stato supportato da sforzi insidiosi e pervasivi.

Tu e molti dei tuoi compagni avete servito nella guerra contro l’Azerbaijan. Cosa hai visto?

Cosa può raccontare un soldato di una guerra che ha perso perché è stato pugnalato alle spalle? Il nostro popolo in questo momento prova un misto di sentimenti: ci sentiamo traditi, disillusi, infuriati e depressi. Non so nemmeno quando e come sarà possibile superare il trauma. Ci siamo uniti volontariamente alle forze armate sin dal primo giorno, ed eravamo pronti a morire per proteggere la nostra patria. Ora invidiamo quelli che sono morti: non dovranno convivere con l’esito vergognoso di questo tradimento.

Si dice che l’Azerbaijan abbia usato volontari estremisti e mercenari dalla Siria per le sue guerre, con l’aiuto turco. Cosa sai di questo?

Il fatto che estremisti e mercenari siano stati ampiamente utilizzati è indubbio. Abbiamo raccolto prove più che sufficienti dal fronte. Questi mercenari, tuttavia, sono una parte inscindibile degli eserciti moderni in stile occidentale, quindi non sarebbe corretto discuterne come separati dall’esercito regolare turco, che, per giunta, è un membro della NATO. Devo anche aggiungere che per quanto riguarda l’efficienza militare, il nostro problema principale era la tecnologia israeliana.

Cosa succederà ora in Armenia? Pashinyan e il suo governo hanno un futuro?

È ovvio che Pashinyan non ha intenzione di assumersi alcuna responsabilità di ciò che ha fatto. Afferma che non prenderà nemmeno in considerazione le dimissioni, anche se sarebbe un modo per riconciliare il Paese. Inoltre, provoca continuamente disordini e polarizzazioni sociali. Ciò in parte è dovuto al fatto che sa di stare combattendo non solo per il potere ma anche per la sua vita. Questo ovviamente sta lasciando un segno nella sua squadra: mentre parliamo numerosi alti funzionari si stanno dimettendo e, di fatto, stanno abbandonano Pashinyan come fosse una “nave che affonda”. Conoscendo i suoi metodi ricorrerà a misure repressive per mettere a tacere l’opposizione e si trasformerà rapidamente in un insensato dittatore totalitario, ma anche così non durerà a lungo.

Non è chiaro chi potrebbe essere un potenziale candidato per sostituire Pashinyan. Non sono nemmeno sicuro che al momento ci sia qualcuno che sarebbe disposto ad assumere un ruolo simile dal momento che il Paese è lacerato e distrutto politicamente, economicamente e, soprattutto, moralmente.

Qual è la tua visione per il futuro del tuo paese?

Il futuro è molto cupo. È imprevedibile. Siamo a un bivio in cui il nostro popolo deve scegliere se continuare a combattere e guadagnarsi il diritto ad essere sovrano oppure cedere e unirsi ai ranghi delle nazioni che hanno perso la loro eredità, statualità e dignità. Un fattore molto importante che deciderà il nostro futuro risiede nelle posizioni delle superpotenze globali: NATO, Russia, Cina e Iran dovranno fare i conti con la crescente influenza della Turchia nella nostra regione e su un palcoscenico globale.

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I Fratelli Musulmani e il fallimento del processo di riconciliazione in Libia

Le soluzioni preconfezionate dell’ONU insieme alle ambizioni degli islamisti stanno compromettendo il processo di pace

L’insoddisfazione dei libici

Il presidente del Council for International Relations in Libia, Adel Yassin, ha espresso forti perplessità nei confronti del meccanismo di voto adottato al Libyan Political Dialog Forum (LPDF) di Tunisi, sottolineando come la missione ONU abbia cercato di favorire l’organizzazione estremista dei Fratelli Musulmani, individuata come suo interlocutore privilegiato nello scenario libico.

 Secondo l’esperto, è quantomeno bizzarro che l’UNSMIL, guidata dal Rappresentante speciale ad interim per la Libia del Segretario generale ONU, Stephanie Williams, abbia deciso di coinvolgere nei negoziati la Fratellanza Musulmana, che in molti paesi del mondo arabo (e non solo) è considerata un’organizzazione estremista e persino terroristica.

Inoltre, l’esperto libico ha rilevato come almeno “due terzi dei partecipanti provenissero dall’organizzazione dei Fratelli Musulmani” (riprendendo un’accusa già sollevata in precedenza)e fossero impegnati a difendere gli interessi del Qatar e della Turchia.

Infine, Yassin ha accusato la missione Onu di portare avanti “un pericoloso gioco internazionale che spingerà la Libia nell’abisso”, col rischio di prolungarne la crisi, fino al punto di renderla simile a quella somala.

Nei giorni scorsi, vari esponenti politici libici avevano criticato l’LPDF. Hassan al-Saghir, ad esempio, ex sottosegretario agli Affari Esteri, ha accusato Stephanie Williams di aver invitato al Forum autentici criminali che avrebbero dovuto essere assicurati alla giustizia e non legittimati politicamente.

Anche 112 membri della Camera dei rappresentanti (il Parlamento di Tobruk) e diverse loro controparti di Tripoli avevano manifestato forti dubbi sul profilo di legalità di alcuni partecipanti al Forum di Tunisi.

Una maggioranza radicale

Anche prima del lancio dell’LPDF il 7 novembre, molte personalità libiche avevano espresso timori per la sproporzionata rappresentanza concessa ai Fratelli Musulmani in un’assemblea che si proponeva di dar vita a un governo di transizione accettabile da tutte le parti in conflitto

Mohamed al-Misbahi, capo  del Consiglio supremo degli sceicchi e dei notabili libici, aveva dichiarato come il Consiglio da lui presieduto respingesse “la frode ai danni del popolo libico di imporre l’agenda politica dei Fratelli Musulmani per la Libia attraverso la missione Onu”.

Su 75 partecipanti al forum 42 sono collegati in qualche modo con i Fratelli musulmani. Già solo questo potrebbe porre la parola fine ai lavori del Forum, la prima sessione del quale, come prevedibile, si è conclusa con un nulla di fatto: qualche generica dichiarazione e l’annuncio delle elezioni da tenersi il prossimo anno, senza tuttavia la formazione di un governo di transizione.

 Il Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Tripoli, riconosciuto dalle Nazioni Unite, guidato da Fayez Sarraj, è sostenuto dai Fratelli Musulmani, oltre che dal Qatar e dalla Turchia, considerati i principali sostenitori della Fratellanza sulla scena internazionale. Tuttavia, la Libia orientale e meridionale continuano ad essere controllate dall’Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar, nemico giurato dei Fratelli musulmani. Haftar è sostenuto da Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Francia, paesi che hanno più volte dichiarato di voler combattere “l’Islam politico”. Per Haftar, i suoi sostenitori in Libia e i suoi partner internazionali, la posizione predominante nell’LPDF riconosciuta alla Fratellanza è semplicemente inaccettabile, rendendo illegittime ai loro occhi le decisioni che vi potrebbero essere assunte.

I criteri di selezione dei partecipanti non hanno solo minato la fiducia di gran parte dei libici nel Forum, ma rischiano di screditare addirittura l’opera dell’ONU nel suo complesso, dal momento che sono stati i funzionari dell’ UNSMIL e Stephanie Williams in persona a sceglierne direttamente 49 su 75.

Il pericolo di una nuova escalation

Perché la Williams ha deciso di agire in questo modo? Molto probabilmente intendeva imporre ai libici soluzioni preconfezionate “per superare la crisi”. Tuttavia, né lei né l’UNSMIL sono riusciti a gestire i candidati teoricamente fedeli alla loro linea. Il forum di Tunisi è stato caratterizzato da intrighi di ogni tipo, compresi palesi tentativi di corruzione nei confronti dei delegati.

Proprio uno dei favoriti della Williams e tra i principali candidati alla carica di Primo Ministro ad interim – l’attuale ministro dell’Interno del GNA Fathi Bashagha – è sospettato di corruzione.

In passato, quando la Williams era stata incaricata d’affari degli Stati Uniti nel paese, Bashagha aveva lavorato a stretto contatto con lei, proponendole addirittura di ospitare una base militare statunitense in Libia.

È possibile a questo punto che gli americani continuino a sostenere l’ipotesi Bashagha come Primo Ministro del nuovo governo, utilizzando le Nazioni Unite e il format del Forum di dialogo politico libico. D’altronde anche le ambizioni del personaggio sono palesi.

Eppure, come osserva il Guardian, “Fathi Bashagha, che spera di diventare il primo ministro ad interim della Libia, è considerato dagli Emirati Arabi Uniti e dalle forze nell’est della Libia pienamente sotto l’influenza sia dei Fratelli Musulmani che della Turchia”.

Se Bashagha salisse al potere, esacerberebbe tutti i problemi sul tappeto. E’, infatti, accusato di crimini di guerra e di aver partecipato personalmente a torture.

Durante lo scorso agosto, dopo che unità del ministero dell’Interno avevano sparato sulla folla nel corso di una manifestazione a Tripoli, c’era stato un tentativo di rimuoverlo dall’incarico. Tuttavia, dopo una visita in Turchia, Bashagha è stato prontamente reintegrato.

Persino gli americani hanno dovuto ammettere che il ministero dell’Interno libico è implicato in rapporti inconfessabili con i trafficanti di esseri umani. Inoltre, è noto il fatto che Bashagha protegga i radicali del gruppo islamista Rada, accusato di essere autore di vari rapimenti a Tripoli.

Qualora Bashagha salisse al potere, è probabile che nel prossimo futuro debba affrontare Haftar sul campo di battaglia. Il feldmaresciallo è molto insoddisfatto dei risultati conseguiti attraverso il “processo di pace”. Lui ei suoi sostenitori, quando ad agosto hanno accettato la tregua, si aspettavano una soluzione di compromesso, non l’imposizione di un rappresentante radicale dei Fratelli Musulmani alla guida del governo “legittimo”.

Ma seppure Haftar si astenesse dall’azione militare, è molto probabile che nella stessa Tripoli scoppi un conflitto militare. L’influente Tripoli Protection Force si è già ripetutamente scontrata con gli uomini di Bashagha e lo ha apertamente contestato. Difficilmente potrebbe accettarlo alla guida dell’esecutivo, per cui Tripoli diverrebbe il campo di battaglia di una nuova guerra civile.

Uno scontro fratricida anche più grave dei precedenti in virtù del fatto che avverrebbe a conclusione di un processo che screditerebbe definitivamente l’UNSMIL e l’intera struttura delle Nazioni Unite agli occhi dei libici, che non ne riconoscerebbero più la terzietà.

C’è una via d’uscita da questa situazione? Il minimo indispensabile sarebbe una maggiore cautela nella scelta dei candidati a membri del nuovo governo, individuando figure di compromesso come il vice primo ministro del GNA Ahmad Maiteeq, considerato un tecnico neutrale. Sarebbe inoltre importante non imporre ai libici soluzioni preconfezionate. Ad essi dovrebbe essere possibile decidere del proprio destino senza pressioni esterne e, in questo senso, scegliere come luogo d’incontro una città della Libia, piuttosto che Tunisia, Marocco o Svizzera, verrebbe recepito come un segnale di fiducia, oltre a mettere i delegati maggiormente al riparo dall’influenza delle potenze straniere.

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Conflitto in Sahara: per l’Onu l’Algeria è parte del problema

L’Algeria è parte del conflitto in corso per la regione del Sahara essendo il principale sponsor del Polisario. E’ quanto stabilito dalla risoluzione 2548 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che ha riaffermato la “consacrazione del processo delle tavole rotonde” e ha incoraggiato “la ripresa delle consultazioni tra il prossimo Inviato personale” del segretario generale Onu e le parti interessate e principali a questa disputa regionale, vale a dire il Marocco, l’Algeria, la Mauritania e il gruppo Polisario. In questo modo viene smentito quanto affermato dai rappresentanti di Algeri tramite interviste alla stampa. Questa l’analisi tacciata da The business globalist della situazione nella regione del Sahara.

Secondo i giornalisti del quotidiano online, i circa 65 militanti del Polisario che per 20 giorni hanno bloccato il traffico presso il valico di Guerguerat, tra Marocco e Mauritania, sono partiti e sono rientrati dai campi profughi di Tinduf che si trovano in Algeria. A conferma del fatto che si tratta di militari mascherati da civili, questi militanti hanno per prima cosa visitato la scuola militare del Polisario che in questi giorni sta reclutati i giovani diseredati del Sahara per attaccare il Marocco, considerato a livello internazionale bastione di stabilità nella regione.

La crisi di Guerguerat è scoppiata per una violazione del diritti internazionale da parte di chi ha bloccato il traffico commerciale tra Marocco e Mauritania colpendo in particolare l’economia dei paesi dell’Africa occidentale, come Senegal e Mali oltre che di Nouakchott, i quali importano i cibi freschi come verdura e frutta quasi unicamente dal Marocco. Nei giorni precedenti all’intervento pacifico del Marocco infatti i commercianti mauritani hanno protestato per la mancanza di rifornimenti nei mercati. E’ di questo infatti che il re del Marocco, Mohammed VI, ha discusso ieri in un colloquio telefonico con il presidente mauritano Ould el Ghazouani, il quale ha chiesto di rafforzare la cooperazione economica tra le parti. Il Marocco inoltre ha ben risposto alla crisi da Covid-19 mantenendo basso il livello dei contagi e avviando una campagna di vaccinazione avendo già acquistato le dosi di un vaccino prodotto da una società cinese.

Diversa è la situazione in Algeria dove non sono resi noti i dati ufficiali dei contagi e dove non è stato ancora approntato un piano di vaccinazione. E’ evidente che il crollo del prezzo del petrolio, il boom del fenomeno dei migranti clandestini che sbarcano sulle coste italiane e spagnole e le proteste del movimento Hirak, oltre il cattivo stato di salute del presidente algerino, Abdel Majid Tebboune, hanno contribuito ad una crisi dell’economia senza precedenti. Nel Sahara marocchino invece proseguono senza sosta gli investimenti economici al punto che sono 19 i consolati dei paesi arabi e africani ad aver aperto a Dakhla e Laayoune in vista dell’arrivo di nuovi investitori e progetti finanziari così come la Giordania ha annunciato l’arrivo dei suoi diplomatici dopo quelli degli Emirati Arabi Uniti. Il timore inoltre è che l’Algeria, in virtù della sua crisi economica, possa scegliere il conflitto armato nella regione. Non a caso la scorsa settimana ha testato un missile balistico di fabbricazione russa lanciando segnali che destabilizzano la regione.

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Il Libyan Political Dialogue Forum (LPDF) e i fallimenti di Stephanie Williams

Il Libyan Political Dialogue Forum (LPDF), iniziato a Tunisi il 9 novembre, va avanti da una settimana. L’iniziativa organizzata dalla Missione ONU in Libia (UNSMIL) e dal suo responsabile, il diplomatico americano Stephanie Williams, ha generato sin dall’inizio molte polemiche sui media.

L’obiettivo prefissato dagli organizzatori prevedeva che i 75 delegati provenienti dalla tre regioni storiche della Libia (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan) adottassero una road map che portasse alla definizione di un “quadro costituzionale”, all’istituzione di un Consiglio presidenziale e di un governo di transizione, alla convocazione di libere elezioni e, quindi, alla pacificazione del paese. Non sembra però che il Forum sia in grado di produrre risultati concreti.

Non a caso, secondo una fonte citata da Libya24.

La seduta del Forum tenutasi ieri, terminata senza che si sia trovato un accordo sui nomi dei candidati al Consiglio di presidenza e alle cariche del nuovo governo, sarà anche l’ultima del LPDF, sebbene i delegati si siano aggiornati al 15 dicembre.

Il Forum si è impantanato in lunghe discussioni e controversie e più volte si è corso il rischio di una rottura definitiva dei negoziati. Il politologo Muhammad al-Amami, in particolare, ha riferito a Erem News.

Che i delegati della Libia orientale hanno minacciato di abbandonare le trattative, quando nel corso del dibattito è emerso il veto alla candidatura di Aguila Saleh, il presidente del Parlamento di Tobruk, alla carica di capo del nuovo Consiglio presidenziale.

I media hanno anche riferito di tentativi di corruzione dei delegati.

La totale assenza di trasparenza sullo stato di avanzamento dei lavori del Forum, i tentativi di corruzione e gli sforzi da parte dell’UNSMIL volti a favorire la candidatura di esponenti di matrice islamista come Fathi Bashagha, il ministro degli Interni del Governo di Accordo Nazionale (GNA) – scelta ritenuta inaccettabile da oltre la metà delle fazioni libiche, ma appoggiata dalla Williams e dagli Stati Uniti – lasciano credere che il summit sia stato organizzato quanto meno in maniera frettolosa, come se gli organizzatori volessero dimostrare di essere in grado di giungere rapidamente a una svolta diplomatica a tutti i costi: un approccio inevitabilmente destinato al fallimento.

L’impressione è che si sia trattato soprattutto di un’operazione di facciata. Ma a che scopo?

Le ipotesi che è possibile formulare sono diverse. Innanzitutto sono in gioco le ambizioni personali della Williams, che finora non era stata in grado di produrre risultati significativi e può aver ritenuto che un’iniziativa clamorosa, e dotata di vasta eco mediatica, per quanto organizzata in modo superficiale, potesse in qualche modo ridarle credibilità.

Un modo, insomma, per legittimare in seno alle Nazioni Unite il proprio ruolo, magari cercando contestualmente di imporre un governo filoamericano in Libia, prescindendo dalla volontà delle fazioni locali.

E’ anche possibile, tuttavia, che l’UNSMIL e il suo capo missione stiano giocando una partita diversa, tesa a manipolare il processo di pace libico, con lo scopo di impedire che personalità estranee ai precedenti accordi intessuti tra ONU e GNA possano andare al potere.

Qualora assumessero posizioni di governo soggetti non coinvolti fino ad ora nelle trame libiche, costoro non solo potrebbero alterare una serie di equilibri e di accordi, ma avrebbero accesso anche a un’enorme quantità di informazioni e documenti che potrebbero confermare le accuse di quanti accusano gli attuali vertici del GNA di corruzione, spesso con il beneplacito dei burocrati delle Nazioni Unite.

Naturalmente l’UNSMIL e Stephanie Williams si affretteranno ora a presentare il LPDF come un successo, con il beneplacito del mainstream internazionale, ma un simile atteggiamento, allorchè sarà a tutti evidente il contrario, potrebbe portare a una completa perdita di fiducia nell’operato della Missione e nel ruolo complessivo dell’ONU.

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Perché il Lybian Political Dialogue Forum potrebbe aumentare i problemi invece di risolverli

Perché il Forum potrebbe aumentare i problemi invece di creare pace e ordine

di N. E.

Il 9 novembre ha preso il via il Libyan Political Dialogue Forum (LPDF). Il forum aveva la pretesa di essere la piattaforma per l’avvenuta riconciliazione del popolo libico, attraverso la costruzione di un nuovo governo legittimo riconosciuto da tutti. In realtà, è molto probabile che l’iniziativa fallisca. Infatti, il governo potrebbe essere composto da personalità invise tanto alle fazioni interne alla Libia quanto ai vari attori esterni. Questo potrebbe precipitare nuovamente il paese nel caos.

Gli obiettivi del forum

Il principale obiettivo del forum di Tunisi è estremamente pragmatico: favorire la discussione volta ad individuare i candidati alle posizioni apicali del coniglio presidenziale e del nuovo governo nazionale. Due organismi di transizione da costituire in vista delle libere elezioni che dovrebbero tenersi entro e non oltre i prossimi diciotto mesi. Inoltre, i settantacinque delegati del forum hanno anche il compito di redigere il documento politico-programmatico finale. Fondamentale per il successo dell’iniziativa, tuttavia, è chi occuperà le posizioni chiave dei nuovi organismi governativi.

In quanto, dietro alle personalità incaricate si muovono inevitabilmente sia fazioni politiche interne, sia potenze straniere che in esse trovano la propria rappresentanza e garanzia di tutela dei propri interessi. Favorire un gruppo piuttosto che un altro, evidentemente, determinerebbe uno squilibrio. In questo momento, dunque, quanto più le personalità che andranno a occupare le posizioni chiave all’interno del governo appariranno neutrali, tanto più sarà realisticamente possibile mantenere in vita il processo di pace in Libia.

Un metodo non trasparente

Apparentemente, il forum sembrerebbe essere stato costruito come una piattaforma aperta e trasparente, in grado di dare ampia rappresentanza a tutte le fazioni in campo e, soprattutto, ai poliedrici interessi presenti nella società libica.

In realtà, il negoziato è interamente gestito dal capo della missione Onu in Libia (UNSMIL) Stephanie Williams, che ha personalmente selezionato la stragrande maggioranza dei delegati (49 su 75, ovvero quelli che in questo momento sono effettivamente impegnati nel negoziato). In questo momento cresce il malcontento per la segretezza delle procedure adottate dai funzionari dell’UNSMIL e per l’evidente manipolazione delle procedure negoziali. La questione di fondo è: in che modo sono stati scelti i partecipanti? In che misura le fazioni e i partiti libici sono stati coinvolti nella selezione? A queste domande dell’opinione pubblica mondiale non viene data risposta e tutto rimane un mistero. Emergono, dunque, forti dubbi sull’effettiva imparzialità del metodo e dell’approccio messo in campo dagli organizzatori del forum.

Contestualmente, le trattative vengono condotte completamente a porte chiuse, con scarse informazioni ufficiali fatte filtrare all’esterno, e questo nonostante le discussioni che si stanno tenendo a Tunisi siano decisive per il futuro della Libia e dei paesi confinanti. In sostanza, le Nazioni Unite non rendono pubbliche le informazioni e le uniche notizie disponibili vengono fornite dalle dichiarazioni che singoli delegati rilasciano agli organi di stampa. Non esistono informazioni chiare e precise sui dettagli del trattato che si sta redigendo: come e quando si terranno le elezioni, quali funzioni saranno attribuite alle varie cariche governative, ecc… L’accordo finale, insomma, sembra essere considerato una mera formalità, mentre le vere decisioni restano nell’ombra. Non sorprende, pertanto, che questo clima di segretezza stia creando sempre maggiore sfiducia nei confronti del forum, sia tra i libici che negli osservatori stranieri. Il problema principale resta il fatto che la società libica, complessa e sfaccettata, continua ad essere privata della possibilità di decidere del proprio futuro, di fatto nelle mani dll’ex incaricata d’affari Usa in Libia Stephanie Williams.

Fughe di notizie

È presumibile che proprio la consapevolezza delle criticità dei metodi utilizzati abbia indotto gli organizzatori del forum a mantenere i lavori nella massima segretezza. Ma proprio la mancanza di notizie ufficiali ha provocato continue fughe di notizie e speculazioni sulle decisioni che si andavano delineando. Le manipolazioni e le contraffazioni delle bozze dei documenti ufficiali si sono susseguite così numerose da costringere gli stessi funzionari dell’UNSMIL a diffondere, il 13 novembre, un comunicato ufficiale che dichiarava come falso un documento circolato sui social network. In realtà è possibile che gli stessi delegati contrari alle conclusioni che si andavano prendendo abbiano favorito la circolazione pubblica della bozza di accordo proprio allo scopo di affossarlo.

In ogni caso, continuano ad essere poco chiare questioni importanti come l’ubicazione dei futuri organi di governo, sebbene qualche indicazione possa essere intuita proprio dalle notizie non ufficiali trapelate. Infatti, nel caso in cui la bozza di documento finale non risultasse completamente falsa, i ministeri e le autorità governative continuerebbero ad avere sede a Tripoli e non a Sirte come si era ipotizzato nella fase preparatoria del negoziato. Questa città, infatti, sarebbe assai più adatta a un corretto funzionamento dell’attività amministrativa, sia per la sua posizione geografica, esattamente al confine tra Tripolitania e Cirenaica, sia per la scarsa presenza di elementi legati a organizzazioni fondamentaliste islamiche (le quali controllano invece numerosi quartieri della capitale), che rappresentano una costante minaccia alla pacificazione del paese.

Con gli islamisti al governo si torna alla guerra

Qualora venissero eletti elementi islamisti radicali – ai quali gli stati uniti sembrano voler dare il loro sostegno – alle principali cariche del nuovo governo di transizione, tripoli diventerebbe seduta stante il centro propulsore del fondamentalismo in nord africa. Purtroppo, uno dei candidati alla carica di primo ministro è proprio Fathi Bashagha, uomo vicino ai Fratelli Musulmani, ministro del Governo di Accordo Nazionale (Gna), accusato di crimini di guerra, tratta di esseri umani, e torture. Difficilmente un personaggio del genere potrebbe garantire pace e stabilità alla Libia, al contrario, trascinerebbe rapidamente il paese in un nuovo conflitto contro il nemico di sempre, il generale Khalifa Haftar, ma anche contro le milizie tripoline nemiche di Bashagha. Assai più accettabili sarebbero soluzioni come riaffidare l’incarico di primo ministro all’attuale leader del gna, Fayez al-Sarraj (percepito in questa fase come più neutrale) o al vice premier Ahmed Maiteeq, uomo d’affari pragmatico e di orientamento laico. Cosa potrebbero produrre invece le simpatie dimostrate dai dirigenti americani della missione Onu verso gli esponenti della Fratellanza Musulmana? Potrebbero solo inasprire ulteriormente le divisioni e la frammentazione del quadro politico libico, rendendo ancora più profondo il solco che separa la Libia orientale da quella occidentale, le fazioni laiche da quella maggiormente caratterizzate da un orientamento maggiormente religioso. In sostanza, il forum di Tunisi inizialmente immaginato come un’assise in grado di portare la Libia alla riunificazione e alla pacificazione rischi di determinare un esito diametralmete opposto sia all’interno che all’esterno del paese. Coloro che vedono come fumo negli occhi che esponenti dei fratelli musulmani assurgano al potere reagirebbero inevitabilmente con tutte le loro forze a una soluzione di questo tipo. Un’ulteriore destabilizzazione della Libia avrebbe ripercussioni sull’intera area mediterranea, non solo sul Nord Africa, ma anche sull’Europa. Meglio sarebbe insomma permettere agli stessi libici di lavorare a una soluzione di compromesso piuttosto che affidare la guida del negoziato alle improvvide mani di manager americani estranei alle logiche politiche del paese.

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Libyan Political Dialogue Forum: come evitare il una nuova escalation militare?

di G. L.

Il 9 novembre ha avuto inizio a Tunisi il Libyan Political Dialogue Forum (LPDF), organizzato dalla Missione delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL), guidata dal diplomatico americano Stephanie Williams. Obiettivo del Forum, in linea con tutti i precedenti summit internazionali sulla Libia degli ultimi anni, è porre fine alla guerra civile, ripristinare l’unità del paese e ricostituire la compagine statale. Il LPDF dovrebbe ancje portare alla composizione di un nuovo governo con un nuovo primo ministro, che andrebbe a sostituire il Governo di Accordo Nazionale (GNA) riconosciuto finora dall’ONU e insediato a Tripoli, con un mandato della durata di sei mesi finalizzato ad indire libere elezioni, determinando così finalmente un nuovo esecutivo dotato di piena legittimità democratica.

“Obiettivo del LPDF è generare un consenso diffuso su un quadro di governance unitario e stipulare un accordo che porti ad elezioni nel più breve tempo possibile in tutto il territorio nazionale”, recita il comunicato ufficiale dell’UNSMIL.

Purtroppo le prime notizie che giungono dal Forum fanno ipotizzare che questa iniziativa sia essenzialmente destinata al fallimento. Essa è infatti viziata da un errore di metodo e dall’approccio alla questione scelto dagli organizzatori. L’UNSMIL, infatti, sta cercando di imporre ai libici soluzioni preconfezionate, impedendo loro di essere effettivamente arbitri del proprio destino.

Il diktat americano

Va ricordato che sin dall’inizio il metodo utilizzato per selezionare i partecipanti al Forum ha sollevato molti dubbi tra gli analisti libici ed internazionali.

I partecipanti sono 75, tutti preventivamente approvati dall’UNSMIL, ovvero da Stephanie Williams. L’ex incaricato d’affari in Libia degli Stati Uniti ha potuto così tagliare a monte i nomi a lei sgraditi. Dei 75 partecipanti 13 sono stati indicati dalla Camera dei Rappresentanti (il Parlamento di Tobruk), vicina alle posizioni del generale Khalifa Haftar, 13 dall’Alto Consiglio di Stato (il GNA), mentre gli altri 49 sono stati scelti direttamente dalla stessa Stephanie Williams tra personalità della cosiddetta società civile, inclusi blogger e giornalisti, spesso senza un reale grado di rappresentatività della società libica. Costoro, tuttavia, garantiscono all’UNSMIL, o meglio alla Williams e quindi agli USA (visti anche i ruoli precedentemente ricoperti da costei su mandato diretto dell’amministrazione americana), un pacchetto di voti sufficiente a determinare qualsiasi decisione il Forum intenderà assumere.

Ma non è tutto. L’UNSMIL ha avocato a sé la possibilità di impedire l’elezione di qualunque personaggio non abbia il suo gradimento, stabilendo che gli eletti debbano, in ogni caso, soddisfare una serie di criteri, alcuni dei quali piuttosto bizzarri, come dimostrare di essere dotati di equilibrio psicologico o possedere le giuste competenze (a insindacabile giudizio dei funzionari della Missione ONU). Inoltre, qualora il processo di elezione del primo ministro e dei membri del consiglio presidenziale venisse a trovarsi in una situazione di empasse e nessun candidato raggiungesse la maggioranza qualificata dei voti (57 su 75 delegati, ovvero il 75%), sarà stesso UNSMIL a decidere a chi affidare l’incarico.

Le critiche alle interferenze straniere

Ieri 112 deputati della Camera dei Rappresentanti hanno diffuso una dichiarazione congiunta in cui hanno contestato il meccanismo di selezione dei partecipanti al Forum. In particolare, i parlamentari hanno manifestato una forte preoccupazione per la partecipazione di soggetti totalmente scollegati dal popolo libico e dalle forze politiche del attive nel paese, nominati esclusivamente per “diluire” il peso delle delegazioni del Parlamento di Tobruk e del GNA.

Essi hanno, inoltre sottolineato come l’UNSMIL non dovrebbe sconfinare rispetto al suo mandato, alterando il dettato della Costituzione provvisoria o usurpando le prerogative della Camera dei Rappresentanti.

Il 9 novembre, l’avvocato tunisino Wafa Al-Hazami El-Shazly, da parte sua, ha affermato che “l’intelligence straniera controlla e guida il negoziato con esplicita brutalità”.

Nel Forum è già scontro

Nel contesto venutosi a creare, è già scontro tra i partecipanti al Libyan Political Dialogue Forum su chi dovrà assumere le posizioni chiave nel nuovo governo libico.

Secondo quanto riportato da Libya24 sono già decine i nomi presenti nella lista dei candidati alla carica di Presidente del Consiglio presidenziale. Tra essi figurano il presidente della Camera dei rappresentanti (Tobruk), Aghila Saleh, e il ministro dell’Interno del GNA, Fathi Bashagha.

Non solo. I media libici riferiscono che sia l’attuale leader del GNA Fayez al-Sarraj, sia il suo vice Ahmed Maiteeq potrebbero continuare a ricoprire incarichi importanti.

Molti politici locali, però, ritengono che la conflittualità in seno al Forum sia tale che ancora non esista un elenco definitivo di candidati alle cariche di membri del governo e del Consiglio presidenziale.

Per come è composto, il LPDF non riuscirà a raggiungere alcun compromesso, consentendo così a Stephanie Williams di decidere la composizione del nuovo governo che sarà “riconosciuto dall’ONU”: secondo indiscrezioni, i nomi del leader del Consiglio presidenziale e del primo ministro potrebbero essere resi noti nel giro di una decina di giorni.

Quale legittimità?

Il metodo scelto dalle Nazioni Unite per i negoziati solleva forti dubbi sulla possibilità che le decisioni che verranno prese e gli uomini che verranno designati per occupare i principali incarichi della futura compagine governativa vengano effettivamente riconosciuti come decisori legittimi dalle forze politiche attive nel paese, che le percepiranno come il frutto di ingerenze straniere.

Un altro grave rischio è rappresentato dalla possibilità che esponenti delle fazioni più radicali del mondo islamico possano occupare posizioni apicali. Il Consiglio supremo degli sceicchi e dei notabili della Libia ha già espresso preoccupazione in questo senso, per i collegamenti esistenti tra ben 45 partecipanti al Forum e i Fratelli Musulmani.

Un personaggio organico alla “Fratellanza” come Khaled al-Mishri, ad esempio, non sarebbe mai accettato dalle fazioni della Libia Orientale quale capo dell’Alto Consiglio di Stato, nuovo capo del governo o membro del Consiglio presidenziale.

Ancora più pericoloso viene considerato Fathi Bashagha, l’attuale ministro dell’Interno del GNA, accusato di torture e crimini di guerra e di avere strettissimi legami sia con i Fratelli Musulmani sia con i salafiti radicali. Il gruppo RADA, una milizia molto potente che sta cercando di imporre la Sharia a Tripoli, gestisce un centro di detenzione illegale presso l’aeroporto di Mitiga ed è coinvolta nel traffico di esseri umani, mantiene intensi rapporti con il ministro, il quale peraltro, secondo i suoi oppositori, già ora tende a comportarsi più da primo ministro che da ministro dell’Interno

Recentemente la Tripoli Protection Force – un gruppo di milizie della capitale vicine al Consiglio presidenziale della Libia e a Fayez al-Sarraj ha accusato Fathi Bashaga “di operare come se fosse il capo del governo o il ministro degli affari esteri. Egli si sposta di paese in paese, utilizzando la sua posizione ufficiale per ottenere un nuovo incarico”.

Bashaga, peraltro, non nasconde le sue ambizioni. Gode di un buon rapporto di amicizia con Stephanie Williams e si è detto favorevole all’installazione di una base americana in Libia, per ingraziarsi il sostegno degli Stati Uniti.

Seppure Khalifa Haftar non decidesse di rompere unilateralmente il cessate il fuoco e non lanciasse un’altra offensiva contro Tripoli in seguito ad una eventuale ascesa di Bashagha alla guida del governo di transizione, è probabile che questo determinerebbe un conflitto nella stessa Libia occidentale.

Attualmente la situazione a Tripoli è particolarmente tesa e verrebbe esasperata da una nomina di Bashagha a primo ministro. Probabilmente assisteremmo a un nuovo scontro, questa volta tra milizie vicine all’attuale ministro dell’Interno e altri gruppi fuori dal suo controllo, come la Tripoli Protection Force.

Già in questi giorni varie bande armate tripoline hanno manifestato insoddisfazione verso il Libyan Political Dialogue Forum.

L’unica via

L’unica via per preservare la possibilità di un dialogo reale tra le parti e perseguire la pacificazione del paese sta nell’abbandonare l’atteggiamento assertivo dell’UNSMIL, i diktat e l’imposizione di un candidato filoamericano (che con ogni probabilità sarebbe proprio Fathi Bashagha, inviso sia al LNA sia a varie milizie tripoline).

Tanto i libici, quanto le potenze straniere con forti interessi nel paese, in primis l’Italia, hanno tutto l’interesse a che si abbandoni il percorso appena intrapreso e a lavorare a un accordo che garantisca effettivamente una Libia stabile.

Tutto questo, fino a quando non potranno tenersi libere elezioni democratiche, può essere ottenuto soltanto con un compromesso tra le reali forze in campo e i soggetti più rappresentativi della società libica, che potrebbero invece accettare un governo di transizione finalizzato all’organizzazione delle votazioni, comprensivo di tutte le fazioni politiche in gioco, guidato dallo stesso Fayez al-Sarraj o dal suo attuale vice Ahmed Maiteeq, che gode di un generale rispetto ed è su posizioni laiche e dialoganti.