Categorie
Approfondimenti Dal Mondo

Erdogan infiamma il conflitto libico

Il governo di Ankara non ritirerà le sue truppe in Libia. Una pericolosa novità sottovalutata dai resoconti dei media relativi al G20 di Roma. Nel corso del summit, infatti, il presidente turco Recep Erdogan ha affermato ufficialmente, e senza mezzi termini, che Ankara rifiuta di ritirare le sue truppe dalla Libia. Una dichiarazione giunta proprio mente l’ONU è impegnata a organizzare e realizzare il ritiro di tutte le truppe straniere presenti nel paese, precondizione indispensabile alla celebrazione delle elezioni che dovrebbero sancirne la pacificazione.

Con questa presa di posizione la Turchia getta mi sul fuoco e minaccia di riportare la conflittualità tra le fazioni che si contendono il potere in Libia a livelli altissimi, mettendo in pericolo il processo elettorale. Una situazione che avrebbe ripercussioni serie e pericolose per l’Italia e per tutta l’Unione Europea.

Primo problema: il ritiro dei mercenari dalla Libia. Le tanto attese elezioni presidenziali dovrebbero avere luogo il 24 dicembre, mentre quelle parlamentari sono previste all’inizio del 2022. La speranza è di chiudere in questo modo il lungo periodo di anarchia e guerra civile in cui è precipitato il paese con la fine del regime di Mu`ammar Gheddafi nel 2011, salvaguardando possibilmente l’unità del territorio libico, oggi di fatto diviso in una parte occidentale sotto il controllo del governo di Tripoli e in una orientale nelle mani del generale Khalifa Haftar e del suo Esercito Nazionale Libico (LNA), impegnato ormai da anni in un duro conflitto non solo con le milizie tripoline, ma anche con i gruppi islamisti, alleati dei turchi. A rendere più complicata la situazione è l’alto numero di forze mercenarie e straniere presenti sul campo, a sostegno dei due contendenti. Proprio per questo la road map concepita dalle Nazioni Unite prevede innanzitutto lo sgombro dei gruppi armati forestieri, da definire attraverso un format di negoziato “5+5”, che vede presenti al tavolo, sotto l’egida ONU, tutte le fazioni in lotta. Lo scorso 8 ottobre, il Comitato militare congiunto “5+5” si è riunito per tre giorni al Palazzo delle Nazioni di Ginevra, concludendosi con la firma di un piano d’azione che prevede un ritiro graduale, equo e coordinato di tutti i mercenari e le forze straniere dalla Libia.

La riunione di Ginevra si è tenuta in linea con i binari tracciati dall’accordo di cessate il fuoco del 23 ottobre 2020 e le relative risoluzioni emesse dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. L’incontro si è configurato come parte integrante di tutti i vari negoziati intra-libici promossi dall’ONU, nonché degli sforzi messi in campo dalla comunità internazionale attraverso la conferenza di Berlino. In questi primi giorni di novembre il Comitato “5+5” ha tenuto un’ulteriore incontro, questa volta al Cairo, sempre organizzato dalle Nazioni Unite, al quale hanno preso parte anche i rappresentanti di Sudan, Ciad e Niger. Nell’occasione, tutti i paesi confinanti con la Libia hanno espresso la loro volontà di cooperare al processo di sgombero dei combattenti stranieri e dei mercenari, mentre i delegati di Sudan, Ciad e Niger si sono impegnati a cooperare per assicurare il ritiro degli uomini armati provenienti dai loro paesi, coordinando le loro azioni, per garantire che questi non tornino in Libia e non destabilizzino gli Stati vicini. Il rifiuto della Turchia di allinearsi agli accordi generali apre, però, un problema gigantesco. Infatti, quasi la metà delle forze straniere presenti in Libia è legata ad Ankara: secondo il SOHR (l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani), il numero totale dei mercenari siriani supportati dai turchi che si trovano nel paese nordafricano è di circa 7.000 unità, laddove le Nazioni Unite hanno stimato la presenza di 20.000 combattenti stranieri sul territorio libico. Sempre fonti del SOHR hanno confermato che, nonostante i tentativi di negoziarne il ritiro a inizio ottobre, i miliziani islamisti veterani del conflitto siriano continuano a stazionare nelle basi turche in Libia, mentre un nuovo contingente di 90 uomini provenienti dalla Siria e giunto in Libia trasportato da apparecchi turchi. G20: diplomazia alla turca Durante il G20, Erdogan, oltre a confermare l’intenzione di non smobilitare i propri uomini in Libia, ha anche ribadito al presidente francese Emmanuel Macron che la presenza turca è legittimata da un accordo di cooperazione militare siglato col governo libico. “I nostri soldati sono lì in qualità di istruttori”, ha ribadito, negando che le loro attività possano essere equiparate a quelle di mercenari illegali.

Le cose, però, non stanno esattamente così. Innanzitutto le sue parole possono valere per il contingente militare ufficialmente inviato dall’esercito turco all’inizio del gennaio 2020, non certamente per i mercenari siriani che continuano a stazionare nelle basi militari di Ankara. Inoltre, gli accordi raggiunti nel vertice dell’8 ottobre a Ginevra riguardano esplicitamente il ritiro di “mercenari, combattenti stranieri e forze straniere”, intendendo per “forze straniere” anche le truppe regolari e gli istruttori. Infine, gli “istruttori” turchi sono sbarcati in Libia in base a un accordo firmato da Ankara nel novembre del 2019 con il Governo di Accordo Nazionale (GNA) presieduto da Fayez al-Sarraj, governo provvisorio cui è seguito lo scorso marzo il nuovo Governo di Unità Nazionale guidato da Abdul Hamid Dbeibah. Il punto dirimente, però, è che all’epoca della stipula del trattato, il mandato del GNA era già scaduto e dunque, in quanto governo provvisorio, esso non aveva il diritto di firmare un tale trattato di cooperazione militare. La stessa ragione per la quale tutti i vicini della Libia e della Turchia hanno disconosciuto il trattato sui confini marittimi (e le relative Zone Economiche Esclusive) contestualmente sottoscritto da Tripoli ed Ankara. Un accordo quest’ultimo che ha notevolmente esteso le rivendicazioni turche sul Mediterraneo e sui suoi ricchi giacimenti di gas e petrolio. E’ per queste ragioni che la presenza militare turca in Libia va considerata illegale in base al diritto internazionale, configurandosi come un avamposto delle ambizioni neo-imperialiste di Erdogan. Non a caso questi, durante il G20, ha annunciato il suo rifiuto a prendere parte al vertice sulla Libia in programma a Parigi (di fatto affondandolo), confermando di non avere alcuna intenzione di supportare gli sforzi internazionali volti a stabilizzare il paese.

“Abbiamo notificato al presidente Macron – ha dichiarato Erdogan – la nostra indisponibilità a prendere parte a una conferenza a Parigi alla quale partecipino Grecia, Israele e l’amministrazione greco-cipriota. Per noi questa è una condizione inderogabile. Se questi paesi saranno presenti, per noi non ha senso inviare delegati”.

A Roma Erdogan ha anche avuto un incontro separato con il presidente del Consiglio Mario Draghi, che però non ha prodotto alcun risultato concreto. Nessun passo avanti è stato fatto nelle relazioni italo-turche, anche per quanto riguarda il sistema di difesa missilistica italo-francese SAMP-T, per il quale la Turchia aveva in precedenza mostrato interesse. Nonostante il generico annuncio di futuri sviluppi in merito, difficilmente la Turchia riprenderà in mano questo progetto se i suoi rapporti con Parigi non miglioreranno. Ed Erdogan non sembra avere voglia di procedere in questa direzione.

Tensioni in Libia Nel frattempo la situazione politica in Libia si fa sempre più precaria, soprattutto dopo che la Camera dei Rappresentanti (il Parlamento di Tobruk) lo scorso settembre, su impulso di Haftar, ha sfiduciato il Governo di Unità Nazionale. Anche dal punto di vista militare le tensioni stanno aumentando, tanto che nei giorni scorsi i capi di due milizie tripoline – Muammar Davi, leader della Brigata 55, e Ahmad Sahab – sono stati vittime di attentati che miravano ad ucciderli. A questo punto è difficile essere sicuri che a dicembre si terranno le elezioni presidenziali, mentre quelle parlamentari sono già state rinviate al 2022. Il ricatto di Erdogan: geopolitica, energia, flussi migratori Se la Turchia ha potuto rafforzare in misura così significativa la sua capacità di influenza in Libia, una parte considerevole della responsabilità va attribuita ai governi presieduti da Giuseppe Conte (in particolare il secondo), caratterizzati da scarsa incisività sul dossier libico. Ricevendo, di fatto, mano libera, Ankara in appena un paio d’anni ha avuto la possibilità di sbarcare nel paese nordafricano centinaia di “consiglieri militari”.

Con il trattato sui confini marittimi e la delimitazione delle rispettive aree ZEE, la Turchia ha assunto il controllo delle coste della Tripolitania, nonché una sorta di patronage sui giacimenti di gas e petrolio del Mediterraneo centrale. La sua influenza politica sul Governo di Accordo Nazionale prima e su quello di Unità Nazionale oggi è enorme. La guerra civile tra Tripoli e Bengasi ha consentito ad Ankara di fornire alla parte occidentale truppe e armi, di reimpiegare le sue milizie mercenarie precedentemente attive in Siria, nonché di ottenere la gestione del porto e dell’aeroporto di Misurata per i prossimi 99 anni. Oggi Erdogan, grazie al forte ascendente che è in grado di esercitare su uno dei più grandi produttori di petrolio del mondo, dispone di un’ulteriore arma di pressione verso l’Europa, quella delle forniture energetiche, che va ad aggiungersi a quella già ampiamente utilizzata relativa al controllo dei flussi migratori, che oggi è in grado di regolare non solo sulla rotta balcanica, ma anche su quella che percorre il Mediterraneo centrale. La più battuta dai trafficanti di uomini, stando a ciò che ci dicono i dati ufficiali, secondo i quali, al 22 ottobre, i migranti giunti in Italia quest’anno sono già 51.568, contro i 26.683 del 2020.

Le richieste di Draghi all’Unione Europea di stanziare fondi per proteggere “tutte le rotte” sono miele per le orecchie turche. Rimandano, infatti, ai 6 miliardi che Bruxelles ha già versato alla Turchia per gestire la rotta balcanica e a quelli che ancora andrà a pagare. Sul suolo turco sono attualmente ospitati 3,7 milioni di siriani, cui vanno aggiunti 300.000 afghani. Una bomba ad orologeria che Ankara minaccia di far esplodere in qualunque momento, qualora le sue richieste non venissero soddisfatte. Insomma le crisi umanitarie – da quella afghana a quella siriana, cui può oramai aggiungersi anche quella libica – sono diventate una straordinaria opportunità per la Turchia di ottenere risorse dall’Europa e tenerla sotto pressione. Per questo mantenere a Tripoli un governo filo-turco è così importante per Erdogan: gli consente di condurre un complesso gioco geopolitico ai danni dell’UE che combina flussi energetici e migratori. Ricomporre un equilibrio nel Mediterraneo e ridimensionare le ambizioni turche con una postura più dura nei confronti del nuovo sultano è la vera sfida che l’Italia deve affrontare, piuttosto che avventurarsi in improbabili e velleitarie aspirazioni a guidare l’UE o a rinsaldare i rapporti trans-atlantici.

Categorie
Uncategorized

Algeria: aperte le indagini sulla morte dei tre camionisti uccisi nel Sahara

Molti i dubbi sulle dinamiche della morte

Sono state aperte dalle autorità algerine le indagini sulla morte di tre camionisti uccisi il primo novembre mentre si trovavano a bordo dei loro mezzi mentre nel deserto del Sahara.

I camionisti algerini sono rimasti coinvolti nell’incidente su una pista nella zona cuscinetto tra l’Algeria e il Marocco. All’impatto sarebbe poi seguita una esplosione. Immediatamente gli analisti locali si chiedono cosa facesse un convoglio commerciale (secondo la versione di Algeri) in questa regione contesa soggetta al diritto internazionale.

Ci sono dubbi su come possa condurre l’Algeria le sue indagini, considerato che il luogo dell’incidente è di competenza della missione Minurso. Il comunicato diffuso oggi dalla presidenza algerina annuncia infatti l’apertura di un’inchiesta, e ciò dimostra come Algeri stia agendo nella zona cuscinetto, in violazione della normativa internazionale vigente. Per gli esperti del dossier, la fragilità della narrazione di Algeri appare evidente con le prime informazioni diffuse su questa vicenda, che inizialmente parlavano di un incidente avvenuto in Mauritania, poi smentita dalla pubblicazione di un comunicato stampa dell’esercito mauritano che ha confutato questa tesi.

Categorie
Dal Mondo News

Economia: Marocco cresce del 5%

E’ il primo paese della zona MENA

Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) prevede una crescita per l’economia mondiale del 5,9% nel 2021 e del 4,9% nel 2022. Per il Marocco le previsioni sono state riviste al rialzo. Il paese realizzerà quest’anno la migliore performance della regione MENA. Un risultato ascrivibile alla gestione efficace della pandemia.

Riviste al rialzo le previsioni per le economie avanzate: le revisioni riflettono gli sviluppi della pandemia e i cambiamenti nel sostegno politico.

Il Marocco ha fatto un grande sforzo per combattere la pandemia da Covid. Al 12 ottobre, più di 23 milioni di persone sono state vaccinate, di cui più di 21 milioni che hanno ricevuto due dosi. Immunizzare le persone contro il virus significa anche immunizzare l’economia dai colpi duri.

Categorie
Approfondimenti Dal Mondo

La sicurezza energetica dell’Italia è in bilico

I problemi energetici e migratori dell’Europa sono esacerbati dalla Turchia

La sicurezza dell’Europa (e dell’Italia) in termini di approvvigionamento di petrolio e gas è sempre più precaria. Le elezioni presidenziali e parlamentari che avranno presto luogo in Libia potrebbero confermare oppure smentire questo quadro geopolitico, ciò che è certo è che le nuove autorità potrebbero trovarsi a dipendere da Ankara, e con loro anche l’Europa.

Il settore energetico della Libia

La Libia è un fornitore chiave di carburante e gas per l’Italia e altri paesi europei. L’ENI Corporation è il più grande attore nel business energetico della Libia, e per l’Italia è fondamentale continuare ed espandere la cooperazione. Il recente incontro a Tripoli, tra l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi con il primo ministro del Governo di Unità Nazionale della Libia, Abdul Hamid Dbeibeh, dimostra quanto la questione sia prioritaria per l’Italia e l’Europa. Durante l’incontro hanno concordato che l’azienda italiana massimizzerà la produzione di gas in Libia.

Tuttavia, è chiaro che le questioni energetiche sono strettamente legate al successo della diplomazia. La politica estera del nuovo governo libico appare, al momento, totalmente imprevedibile, causando non poco nervosismo nei leader di quei paesi che – a livello energetico – si appoggiano alla Libia.

Tra tutte le ipotesi, lo scenario peggiore si verificherebbe se il nuovo presidente e il Parlamento fossero molto vicini alla Turchia. Ankara, che aumenta la sua influenza attraverso il governo di unità nazionale e le reti locali dei Fratelli Musulmani, potrebbe quindi intaccare fortemente gli interessi dell’Italia. L’Italia si troverebbe costretta a esportare il petrolio dalla Libia o dall’Azerbaigian attraverso la Turchia (passando per il Gasdotto Trans Adriatico).

La seconda opzione è la più instabile che si possa immaginare: in caso di dissidi nelle relazioni diplomatiche con la Turchia, a essere colpito immediatamente sarebbe proprio il comparto energia, con grave danno per l’Italia. Soprattutto considerando l’aumento dei prezzi dell’energia in Europa, una simile eventualità sarebbe disastrosa.

Perché la cooperazione Turchia-Libia è pericolosa?

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è affermato come un leader astuto con ambizioni neo-ottomane, che ha molto spinto per introdurre i propri militari all’interno di Stati vicini, considerati strategici, soprattutto quando questi sono in una situazione di forte instabilità politica. La Turchia, infatti, non ha mai ritirato i militari e i mercenari dalla Siria dalla Libia, neanche dopo i negoziati internazionali delle Nazioni Unite.

Il Ministero della Difesa turco ha detto che il Paese continuerà la cooperazione in materia di sicurezza secondo quanto stabilito da un precedente memorandum.

Non è la prima volta che l’Europa sente un simile ultimatum dalla Turchia. La Turchia ha ripetutamente ignorato le raccomandazioni e gli accordi relativi alla sicurezza e alla fornitura di armi in questi scenari. Erdogan ha anche fatto leva sull’Unione Europea giocando sulla questione della migrazione di massa quando ha minacciato di rilasciare tutti i clandestini diretti verso le coste europee.

Le prossime elezioni in Libia potrebbero rivelarsi drammatiche per l’Europa se la posizione filo-turca delle autorità si rafforza. Per ora, il governo provvisorio del GUN ha già arruolato il sostegno turco. Inoltre, i rappresentanti di organizzazioni radicali come i Fratelli Musulmani – per esempio, il Presidente dell’Alto Consiglio di Stato, Khalid Almishri – stanno collaborando con Ankara.

Se la tendenza continua, il nuovo governo in Libia sarà filo-turco, la Turchia, attraverso le sue reti islamiste, sarà in grado di influenzare le decisioni chiave sui bilanci, i grandi contratti e le consegne, nonché di influenzare la situazione politica interna del Paese nordafricano. L’Italia diventerà un facile ostaggio della questione energetica a causa della Turchia.

Il destino della Libia

Secondo le informazioni attuali, le elezioni presidenziali in Libia avranno luogo il 24 dicembre, mentre le elezioni parlamentari sono già state rinviate a gennaio. La situazione rimane instabile, con le varie frange del potere che già litigano tra loro. Per esempio, il GUN è già diffidato dalla popolazione locale – il 21 settembre, in presenza del suo leader (Agila Saleh) la Camera dei rappresentanti ha approvato un voto di sfiducia al governo di Abdel Hamid Dbeibeh. I parlamentari hanno accusato il GUN di aver stipulato contratti che non erano stati concordati e che potrebbero portare a grandi debiti esterni, così come di aver sottratto grandi somme dal bilancio non approvato.

In un tale ambiente, attori esterni come la Turchia potrebbero facilmente influenzare la destabilizzazione del Paese. A sua volta, le conseguenze di un simile scenario minacciano in primo luogo la stessa Libia: dividendo di nuovo il paese “a metà” e in fazioni separate con i propri interessi). La mancanza di cooperazione internazionale provocherebbe anche un’altra ondata di migrazione incontrollata verso l’Europa.

Gli incontri di Ginevra dei giorni 6-8 ottobre hanno riguardato il ritiro delle truppe straniere dalla Libia. La Turchia sta ovviamente ignorando quanto stabilito dal Comitato militare congiunto 5+5 perché non è interessata alla pacificazione, ma all’ulteriore ottomanizzazione della regione nordafricana. Se l’influenza di Ankara dovesse aumentare, chiunque diventerà il prossimo presidente (anche Khalifa Haftar) sarà condannato ad essere pro-turco o almeno a fare i conti con i diktat della Turchia, ostaggio dei mercenari che Erdogan mantiene sul territorio.

Categorie
Approfondimenti Dal Mondo

Marocco: il premier Akhannouch forma il nuovo governo

Un governo giovane, progressista, composto esclusivamente da competenti per attuare la strategia di sviluppo del Paese del Re Mohammed VI

Il premier incaricato del governo marocchino, Aziz Akhannouch, uscito vincitore dalle elezioni politiche dell’8 settembre scorso, ha presentato il suo nuovo governo dopo che i ministri proposti sono stati ricevuti dal re Mohammed VI.

Secondo quanto riporta l’agenzia di stampa marocchina “Map”, ad accogliere oggi il nuovo esecutivo, composto da 24 ministri tra cui ci sono 7 donne, oltre al monarca era presente il principe ereditario, Moulay El Hassan. La cerimonia si è svolta nel palazzo reale di Fez.

Oltre al premier Akhannouch ci sono delle conferme rispetto al precedente esecutivo, come il ministro dell’Interno, Abdelouafi Laftit, degli Esteri Nasser Bourita, e degli Affari islamici Ahmed Toufiq, ma anche delle novità come la giovane Nadia Fettah Alaoui che passa da ministro del Turismo a ministro dell’Economia.

Il governo di Akhannouch

Si tratta infatti di un governo giovane, progressista, composto esclusivamente da persone competenti. Un governo capace di attuare la strategia di sviluppo del Paese e la marcia verso l’emersione economica guidata dal re Mohammed VI. Gli altri ministri sono: Abdellatif Ouahbi ministro della Giustizia; Mohamed Hajoui Segretario Generale del Governo; Nizar Baraka ministro delle Attrezzature e dell’acqua; Chakib Benmoussa ministro dell’Educazione Nazionale, della Scuola Materna e dello Sport; Nabila Rmili ministro della Salute e della Protezione Sociale; Fatima Ezzahra El Mansouri, ministro della Pianificazione Nazionale del Territorio, dell’Urbanistica, dell’Abitazione e delle Politiche Urbane; Mohamed Sadiki ministro dell’Agricoltura, della pesca marittima, dello sviluppo rurale e dell’acqua e delle foreste; Younes Sekkouri ministro dell’inclusione Economica, delle piccole imprese, dell’occupazione e delle competenze; Ryad Mezzour ministro dell’Industria e del Commercio; Fatim-Zahra Ammor ministro del Turismo, dell’Artigianato e dell’Economia Sociale e Solidale; Abdellatif Miraoui ministro dell’Istruzione Superiore, della Ricerca Scientifica e dell’Innovazione; Leila Benali ministro della Transizione energetica e dello sviluppo sostenibile; Mohamed Abdeljalil ministro dei Trasporti e della logistica; Mohamed Mehdi Bensaid, ministro della Gioventù, della Cultura e della Comunicazione; Aouatif Hayar, ministro della Solidarietà, dell’Inclusione Sociale e della Famiglia; Abdellatif Loudiyi, ministro delegato presso il Capo del governo responsabile dell’amministrazione della Difesa nazionale; Mohcine Jazouli, ministro delegato presso il Capo del governo incaricato degli investimenti, della convergenza e della valutazione delle politiche pubbliche; Faouzi Lekjaa ministro delegato presso il Ministro dell’Economia e delle Finanze, responsabile del Bilancio; Mustapha Baitas ministro delegato presso il Capo del governo incaricato dei rapporti con il Parlamento, portavoce del governo; Ghita Mezzour, ministro delegato presso il Capo del governo incaricato della transizione digitale e della riforma amministrativa. I segretari di Stato in alcuni dipartimenti ministeriali saranno nominati in seguito.

Categorie
Approfondimenti Dal Mondo

Elezioni in Mali: la partita si gioca sulla convocazione

La Francia non sembra avere intenzione di mollare la sua presa sul Mali dopo il colpo di stato del maggio scorso. Lo testimonia il tenore dell’intervento del delegato di Parigi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che lo scorso 27 settembre ha intimato alle autorità maliane di rispettare la scadenza elettorale prevista per il 27 febbraio 2022.

Il ministro della Difesa francese Florence Parly, da parte sua, si è spinto ancora più oltre, accusando l’attuale capo del governo del Mali, Choguel Kokalla Maiga di ipocrisia, malafede e indecenza.

Precedentemente il premier maliano aveva ipotizzato di rinviare le elezioni presidenziali e parlamentari fissate per febbraio prossimo proprio allo scopo di evitare contestazioni sulla loro regolarità. Maiga aveva anche contestato alla Francia di aver “abbandonato” il paese al suo destino nel bel mezzo di un conflitto civile e che il governo della giunta militare da lui guidato avrebbe cercato altri partner, anche “privati”, per fronteggiare la situazione.

A chiarire il reale significato delle parole del primo ministro maliano era quindi intervenuto il responsabile della politica estera di Mosca Sergei Lavrov che aveva annunciato il raggiungimento di un accordo tra il Mali e una Private Military Company (PMC) russa per proseguire la lotta al terrorismo, confermando quanto riferito dall’agenzia Reuters sul coinvolgimento della PMC Wagner, già presente da tempo e con forza nella Repubblica Centrafricana.

Il nodo elezioni

Dopo il rovesciamento nell’agosto di un anno fa del Presidente della Repubblica filofrancese Ibrahim Boubacar Keita da parte dei militari maliani, le relazioni tra Bamako e Parigi si sono rapidamente deteriorate. Nel giugno 2021, dopo il nuovo golpe della fine di maggio 2021, il Presidente Emmanuel Macron ha annunciato la sua intenzione di ritirare la missione militare francese antiterrorismo dal Mali. Contestualmente la Francia e la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS), molto condizionata da Parigi, hanno cominciato ad esercitare pressioni, sia diplomatiche che economiche, sul Mali affinchè venissero indette nuove elezioni “democratiche” il più rapidamente possibile. L’obiettivo evidente era ottenere il più velocemente possibile la caduta della nuova giunta militare, indebolendone la capacità di interdizione militare rispetto ai gruppi ribelli e scatenando il malcontento popolare.

Proprio le pressioni interne ed esterne avevano indotto nel settembre 2020 i militari maliani a varare la Carta di transizione del Mali, un documento paracostituzionale che definiva i poteri e la durata del governo provvisorio. Il documento era il frutto di un compromesso politico tra i militari e l’opposizione rappresentata dal Movimento 5 giugno-Raggruppamento delle forze patriottiche (M5-RFP), raggiunto grazie alla pesante moral suasion dell’ECOVAS.

L’arrivo del Gruppo Wagner nel paese, però, sembra aver aumentato la capacità negoziale dei militari rispetto all’ex potenza coloniale, al punto che essi sentono di poter disporre di un più ampio margine di manovra e di potersi sottrarre agli impegni presi in precedenza, a cominciare dal nodo elettorale. Il governo maliano rivendica adesso la propria libertà di decidere autonomamente quando fissare la data delle elezioni, in base allo stato dell’ordine pubblico del paese, e di cambiare significativamente le stesse regole in base alle quali svolgerle.

Chi può concorrere alla carica di presidente?

Aggirando il testo della Carta di transizione del Mali, l’attuale Capo dello Stato provvisorio, Assimi Goïta, sarebbe intenzionato a candidarsi alla carica di Presidente della Repubblica.

Stando alla lettera della Carta di transizione, in base all’articolo 9 agli attuali presidente e vicepresidente ad interim non sarebbe consentito candidarsi alle elezioni che dovranno svolgersi al termine del “periodo di transizione”.

I membri dell’attuale governo, però, contestano questo dispositivo per due motivi.

Il primo concerne l’incostituzionalità della stessa Carta di transizione, che viola la Costituzione ufficiale del Mali, tuttora vigente. In particolare la Carta di transizione contravverrebbe all’articolo 121 della Costituzione della Repubblica del Mali varata nel 1992, secondo cui “il fondamento di ogni autorità nella Repubblica del Mali risiede nella Costituzione”, nonché all’articolo 26, il quale sancisce che la fonte della sovranità nazionale è il popolo, laddove la Carta di transizione non è stata approvata dai cittadini.

Inoltre la Carta di transizione ha la pretesa di porsi al di sopra della stessa Costituzione, ma questa non prevede la possibilità di dotarsi di strumenti giuridici che deroghino dalla Costituzione. La circostanza in virtù della quale la Carta di transizione è stata adottata con il consenso di una cerchia ristretta di individui, senza che essa fosse seguita da una consultazione popolare, sarebbe in contraddizione secondo il governo attuale, anche con l’articolo 26 della Costituzione, che sancisce che “la Costituzione deve essere rispettata in ogni circostanza”.

Pertanto, proprio in quanto incostituzionale, la Carta di transizione non avrebbe l’autorità per limitare i diritti dei cittadini del Mali, compresi quelli del colonnello Assimi Goïta. La Costituzione della Repubblica del Mali del 1992 non essendo stata (né potendo essere) abrogata dalla Carta di transizione, renderebbe nulle tutte le disposizioni contenute in questo documento in palese contraddizione con il testo costituzionale. Un argomento in virtù del quale i membri della giunta militare considerano incostituzionale, e quindi giuridicamente nulla, la limitazione del diritto di voto passivo del Capo dello Stato dell’attuale periodo di transizione.

Il secondo motivo in base al quale viene contestato l’articolo 9 della Carta di transizione ha invece a che fare con principi giuridici più generali, in base ai quali il futuro Capo dello Stato dovrebbe non solo essere dotato dei requisiti legali per assumere la carica, ma anche possedere la legittimità per esercitare il ruolo, volendo aderire al lessico di uno dei più grandi giuristi del XX secolo, il tedesco Carl Schmitt. Dovrebbe, in sostanza, essere provvisto del consenso effettivo della popolazione, o della maggioranza di essa. In questo momento, il colonnello Goïta è oggettivamente una delle poche figure di spicco della scena politica maliana e impedirgli di candidarsi comprometterebbe la legittimità, in senso schmittiano, delle future istituzioni del paese, in quanto l’articolo 9 della Carta di transizione impedirebbe al popolo del Mali di esercitare pienamente la propria sovranità nella scelta del Capo dello Stato. Pertanto l’incandidabilità del colonnello Assimi Goïta a presidente del Mali sarebbe illegittimo e illegale.

Gli altri contendenti

Assimi Goïta non è, però, l’unica figura popolare in Mali. L’esito della competizione elettorale dipenderà dal sostegno delle personalità politiche economiche e religiose della società maliana in grado di influenzare, per ragioni tribali o di clan, le scelte della popolazione, così come l’eventuale decisione di rinviare le elezioni fino a quando l’ordine sarà pienamente ripristinato.

Un personaggio molto popolare, ad esempio, è l’imam Mahmoud Dicko, un leader religioso di orientamento salafita che ha avuto un ruolo enorme nell’organizzazione delle proteste contro l’estromissione di Ibrahim Boubacar Keita, che aveva guidato il primo golpe nell’agosto dello scorso anno, e che ha promosso una consultazione sull’estensione del regime militare.

Gode di largo seguito anche il leader sufi Mohammad Maoulah Bouyé Haïdara, impegnato a organizzare marce e raduni a favore della proroga dell’attuale regime il più a lungo possibile.

Altri possibili candidati alla presidenza del Mali sono Ibrahima Diawara, vice presidente dell’associazione degli imprenditori maliani; Seydou Coulibaly, capo della società di consulenza ingegneristica CIRAS; e l’uomo d’affari Aliou Boubacar Diallo, che arrivò terzo alle elezioni presidenziali del 2018. Secondo i media maliani, infine, i militari potrebbero anche decidere di candidare il generale in pensione Moussa Sinko Coulibaly o il banchiere Mamadou Igor Diarra.

Sarà interessante, a questo punto, verificare se effettivamente la giunta militare avrà la forza sufficiente, oltre agli argomenti, per determinare autonomamente la data delle elezioni sottraendosi alle pressioni. Ciò significherebbe che davvero, in quella parte di Africa, gli equilibri geopolitici sono mutati. 

Categorie
Approfondimenti Dal Mondo

Il Mali in rivolta contro il neocolonialismo francese

Un’analisi delle ragioni

La situazione venutasi a creare in Mali dopo il recente colpo di stato militare testimonia la crisi dell’influenza francese in Africa. Un’ulteriore conferma è rappresentatoa dal recente intervento tenuto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dal primo ministro della nuova giunta militare Choguel Kokalla Maïga che ha ammesso che il suo paese è stato costretto a rivolgersi alla compagnia militare privata russa Wagner dopo il ritiro della Francia.

“L’annuncio unilaterale del ritiro dei militari dell’Operazione Barkhane ha rappresentato un tradimento dei legami che univano l’ONU, il Mali e la Francia nella lotta in prima linea contro quegli elementi impegnati a destabilizzare il paese”, ha dichiarato il premier maliano il 25 settembre, quinto giorno dell’Assemblea Generale dell’ONU.
Di questa “nuova situazione” si è dovuto fare carico il nuovo governo che svilupperà tutto quanto necessario “per garantire il maggior livello di sicurezza possibile, in modo autonomo o con l’aiuto di altri partner, al fine di garantire alla popolazione un futuro migliore, che va raggiunto ad ogni costo”, ha aggiunto.

E mentre Choguel Kokalla Maïga pronunciava il suo discorso, lo stesso ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, dava conferma che le autorità maliane si erano rivolte a una “compagnia militare privata russa” per ripristinare l’ordine nel paese.

Nel frattempo, mercoledì 22 settembre si era svolta a Bamako, la capitale del Mali, una grossa manifestazione di piazza con migliaia di persone che protestavano contro l’interferenza francese negli affari interni del paese, proprio mentre più intensa si faceva la pressione internazionale nei confronti del nuovo leader militare, il colonnello Assimi Goïta, per dissuaderlo dal concludere l’accordo con il Gruppo Wagner.

Alla guida della folla c’era il noto panafricanista Kemi Seba con la richiesta di ritirare immediatamente le truppe francesi dal paese: “L’ultima fase della decolonizzazione è iniziata”, ha commentato su Twitter.

“Preferiamo i russi agli occidentali, ma preferiamo gli africani ai russi”, ha precisato poi Seba nel corso di una conferenza stampa a Bamako.

Il possibile arrivo dei russi in Mali era già stato anticipato a metà settembre dalla Reuters. La reazione del ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, e del ministro della Difesa tedesco, Annegret Kramp-Karrenbauer, non si era fatta attendere e i due avevano immediatamente definito l’ipotesi “inaccettabile”. Anche il capo della diplomazia europea, Sulla stessa lunghezza d’onda era intervenuto anche Josep Borrell, capo della diplomazia europea. Il 20 settembre, il ministro della Difesa francese, Florence Parly, si è recata a Bamako, minacciando di sospendere gli aiuti al Mali nella lotta al terrorismo nel caso in cui fossero arrivati i russi. Eppure, come hanno dimostrato le proteste di Hu e le dichiarazioni ufficiali della leadership maliana, tutti i tentativi europei sono caduti nel vuoto.

Al contrario, il nuovo governo del Mali ha risposto alle pressioni affermando categoricamente che non permetterà “A nessuno Stato straniero di intromettersi nelle proprie scelte e tantomeno di decidere con quali partner collaborare “.

L’insoddisfazione in Mali e nelle altre ex colonie nei confronti della Francia e del suo atteggiamento neocoloniale è in forte aumento negli ultimi mesi. I movimenti panafricanisti considerano Parigi il principale ostacolo allo sviluppo del continente: l’opinione pubblica locale accusa la Francia di estrarre illegalmente uranio e oro in Mali, di saccheggiare le risorse naturali africane e di imporre il franco CFA come strumento di signoraggio economico.

Accuse che in Italia non sono affatto sconosciute e dove, anzi, vari esponenti politici negli ultimi anni hanno messo in guardia su come l’atteggiamento transalpino nei confronti dell’Africa possa essere disastroso per l’Europa.

In particolare la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, è più volte intervenuta su questo tema affermando ripetutamente che la politica francese in Africa danneggia gli africani e la stessa Europa. In particolare, lo scorso marzo, intervenendo alla conferenza “L’Africa perduta. Instabilità, sfruttamento e interessi geopolitici in un continente dimenticato”, la Meloni ha sottolineato che:

“L’Africa, a differenza di quello che si pensa, è un continente ricchissimo di materie prime, nonostante sia il più povero del mondo. Ad esempio, società di proprietà dello Stato francese sono presenti in pianta stabile in Niger, dove sono concentrate gran parte delle riserve di uranio di tutto il pianeta. La multinazionale francese estrae uranio e lo porta in Patria per alimentare le centrali nucleari. Con l’uranio del Niger il governo di Parigi riesce a soddisfare un terzo del fabbisogno energetico nazionale e il 90% dei nigerini non ha nemmeno l’energia elettrica. In più, nei villaggi dove viene estratta questa preziosa risorsa, si beve acqua radioattiva e si coltiva su un terreno avvelenato dagli acidi”.

Secondo Giorgia Meloni, inoltre, “il saccheggio delle risorse africane non solo espropria i popoli della loro ricchezza ma causa ulteriore desertificazione, alimenta i conflitti tribali su cui si insinua come una serpe il fondamentalismo islamico, provoca i flussi migratori che non fanno bene né all’Africa né all’Europa”

In altre circostanze, la leader della destra italiana, aveva anche rimarcato come per gestire i flussi migratori “la soluzione non è prendere gli africani e spostarli in Europa ma liberare l’Africa da certi europei, come i francesi, che la sfruttano”.

Ma la Meloni non è l’unico esponente politico del nostro paese ad aver criticato l’approccio politico allo scenario africano nel recente passato. Nel 2019, per esempio, l’attuale titolare della Farnesina, Luigi Di Maio, affermò che l’Unione europea “dovrebbe sanzionare tutti quei paesi come la Francia che stanno impoverendo gli stati africani”

Matteo Salvini, da parte sua, nei mesi trascorsi al Viminale aveva evidenziato come tra le molte cause all’origine del problema migranti, un ruolo preminente lo avesse la circostanza che “c’e’ chi va in Africa non a creare sviluppo ma a sottrarre ricchezza a quei popoli e a quel continente. La Francia evidentemente è tra questi, l’Italia no”.

Anche in Africa centrale, in sostanza, Parigi si è mossa nell’ultimo decennio come un elefante in una cristalleria, producendo disordine, anarchia e diffidenza nelle popolazioni, con risultati disastrosi per l’Europa, come, peraltro, era già avvenuto in Libia, con gli effetti negativi che sono ancora sotto gli occhi di tutti. Il conseguente sgretolarsi dell’egemonia francese nella Françafrique sta aprendo le porte all’influenza non solo russa, ma anche cinese e turca, come dimostrano proprio i recenti avvenimenti in Mali. E da questi paesi dipenderà sempre più l’evoluzione del fianco meridionale europeo e la gestione dei flussi migrantori e delle molteplici tensioni sociali, economiche e politiche che attraversano il continente africano.

Categorie
Uncategorized

Gli Stati Uniti e l’inchiesta “Lab-leak”: la lettera aperta di Christopher Ford, l’ex assistente di Mike Pompeo

Il Dipartimento di Stato USA e l’inchiesta “Lab-leak”: lettera aperta di Christopher Ford, ex assistente del segretario di Stato Mike Pompeo*

* Christopher Ford ha prestato servizio fino all’8 gennaio 2021 come assistente del Segretario di Stato USA Mike Pompeo per la sicurezza internazionale, svolgendo negli ultimi 15 mesi dell’amministrazione Trump  le funzioni di sottosegretario di Stato per il controllo degli armamenti e la sicurezza internazionale. In precedenza, sempre presso il Dipartimento di Stato, aveva guidato la Direzione per il contrasto alla proliferazione delle armi di distruzione di massa. Laureato a Harvard, Rhodes Scholar all’Università di Oxford e alla Yale Law School, il dottor Ford ha collaborato in qualità di esperto con vari think tank, è stato ufficiale dell’intelligence della Marina degli Stati Uniti, membro dello staff di cinque diversi comitati del Senato degli Stati Uniti e diplomatico americano di alto livello. È autore di due libri sulla politica estera cinese e di decine di articoli su argomenti di sicurezza internazionale. Qui il suo sito personale.

In una lettera aperta pubblicata lo scorso 10 giugno, Ford prende posizione contro le accuse mossegli da alcuni consulenti e funzionari del Dipartimento di Stato americano di aver tentato di boicottare l’indagine sulla Lab-leak – l’ipotesi secondo cui il COVID-19 avrebbe un’origine artificiale e si sarebbe diffuso in seguito a una fuga accidentale del patogeno dal laboratorio di Wuhan. Accuse che hanno dato origine negli USA a una violenta e importante polemica sui media.

La lettera aperta

Siccome i fatti e l’onestà intellettuale continuano ad avere un valore sia in ambito giornalistico sia in ambito politico, nonostante la deriva che caratterizza i nostri tempi, spero che questa lettera aperta aiuti a fare chiarezza, dopo la notevole quantità di sciocchezze e falsità che sono state scritte recentemente riguardo ai litigi all’interno del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America  nelle ultime settimane dell’amministrazione Trump, sul modo in cui avrebbe dovuto essere esaminata la questione delle origini del SARS-CoV-2.

Mi sono deciso a scrivere perché, per dirla senza giri di parole, sono stanco di essere bersaglio di stupide e paranoiche teorie complottiste diffuse da chi sostiene di saperla lunga, ma che qualsiasi osservatore attento e scrupoloso potrebbe confutare senza difficoltà, considerando che il sottoscritto è colui che sin dal 2007 ha messo in guardia la comunità politica circa la minaccia rappresentata per gli Stati Uniti e per l’intero mondo democratico dalle ambizioni geopolitiche del Partito Comunista Cinese. Stanno lì a dimostrarlo due saggi scientifici, decine di articoli e discorsi, pronunciati anche in veste ufficiale di membro del Dipartimento di Stato: in che modo avrei coperto, dunque, le responsabilità del Partito Comunista Cinese?

So bene, però, avendo frequentato la politica per molto tempo, che un’assurdità, per quanto stupida, se inserita in una narrazione conveniente, è in grado perfino di negare con successo l’evidenza e la logica dei fatti e so anche che una sequela di accuse compulsive e oltraggiose appassionano assai più di un’analisi sobria. Può darsi, dunque, che provare a fare chiarezza sia fatica sprecata. Ciononostante ho deciso di tentare.

E cercherò anche di fare qualcosa di assai poco ortodosso. Piuttosto che usare questa lettera come un’opportunità per inventare e diffondere a gran voce la mia versione dei fatti post eventum – aderendo a una prassi diffusa, ma intellettualmente disonesta – cercherò invece di fornire esclusivamente risposte specifiche e supportate da prove a quanto riportato nei documenti offerti all’attenzione della pubblica opinione dai solerti giornalisti di Fox news e Vanity Fair.

1) Riferimenti documentali precisi

A tal proposito, siccome la questione che ci interessa è il mio ruolo e la mia posizione in relazione all’indagine sulle origini del COVID-19, farò riferimento a tre documenti da me elaborati ed inviati ad altri membri del Dipartimento di Stato all’inizio del gennaio 2021 (Per la cronaca: quando ho lasciato il Dipartimento, non avevo conservato una copia per me di questi documenti. Si dà il caso, però, che fortunatamente le bugie raccontate su questi temi abbiano suscitato l’indignazione  di coloro che sapevano cos’era successo veramente e che ne avevano conservato copia.  Sono felice che essi siano oggi di pubblico dominio, perché aiutano a chiarire cosa stessi facendo esattamente in quel periodo e perché)

I documenti sono i seguenti:

  1. La mail da me inviata il 4 gennaio 2021 a Tom DiNanno e David Asher il 4 gennaio 2021, pubblicata da Fox News;
  2. Uno scambio di mail intercorso tra me e DiNanno il 5 e il 6 gennaio, recuperabile sempre su Fox News
  3. Un messaggio che ho inviato a un certo numero di alti funzionari del Dipartimento di Stato l’8 gennaio, che può essere recuperato su Vanity Fair

2) Sollecitare un’indagine corretta e documentata sulla fuga da laboratorio

Parto da un punto critico. Come si evince da questi documenti, le discussioni in seno al Dipartimento di Stato vertevano sulla necessità di accertare i fatti prima di assumere posizioni pubbliche particolarmente gravi come l’affermazione del Segretario di Stato Mike Pompeo secondo cui fosse “statisticamente” impossibile che SARS-CoV-2 non si fosse originato da una manipolazione di laboratorio effettuata in Cina, l’avvio di “iniziative diplomatiche” presso i governi stranieri sulla base di questa teoria e l’accusa ai danni della Cina di aver violato la Convenzione sulle armi biologiche (BWC) con il COVID-19.

Non era in atto alcun tentativo di impedire l’indagine sull’origine del virus: al contrario la disputa riguardava le modalità con cui condurre l’inchiesta affinché se ne potesse garantire la correttezza e la validità scientifica, soprattutto perché per noi era di vitale importanza andare fino in fondo sulla questione delle “origini” del COVID, inclusa la possibilità che esso provenisse dal Wuhan Institute of Virology (WIV). Personalmente ho sempre sostenuto che l’ipotesi “Lab-leak” meritasse un esame approfondito, perché si tratta di un’ipotesi molto realistica. E non lo sto dicendo solo ora, l’ho affermato anche all’epoca. E spesso.

A questo punto, diamo un’occhiata ai documenti, cominciando dalla mia e-mail del 4 gennaio a DiNanno e Asher. In quel messaggio sottolineavo come le “accuse rivolte dall’Ufficio per il controllo, la verifica e la conformità degli armamenti (AVC) al WIV e al programma cinese BW di essere all’origine di SARS-CoV-2 erano “importanti” e “preoccupanti” e che, proprio per questo, dovevano essere subito vagliate da esperti scienziati.

(Ebbene sì, lo ammetto: ho chiamato il virus “WuFlu”. In un momento in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità escogitava denominazioni “non discriminatorie” come “Alpha” e la gente parlava, invece, liberamente di “variante inglese” “o “variante sudafricana”. Non mi pareva ingiustificato chiamare il virus originale facendo riferimento alla sua effettiva provenienza da Wuhan. Temo di averlo chiamato altrove anche “KungFlu”. Visto col senno di poi tutto questo non appare particolarmente intelligente. Ma spero che il lettore tenga conto del fatto che trattava di mail interne, non destinate ad essere rese pubbliche. Se avessi saputo che un giorno lo sarebbero divenute non sarei stato così naif. Mea culpa.)

In ogni caso, in quella mail ricordavo a DiNanno e Asher di aver loro ordinato, circa un mese prima, di istituire “una commissione di esperti” che, coinvolgendo scienziati di alto profilo ed elementi dell’intelligence, valutasse l’attendibilità delle informazioni di AVC. Chiedevo loro, inoltre, per quale motivo non avessero effettuato le necessarie verifiche prima di fare certe affermazioni e, soprattutto, per quale ragione continuassero a diffondere tra i membri dell’agenzia certe accuse senza averle prima fatte validare da scienziati indipendenti.

In quello stesso messaggio datato 4 gennaio, ribadivo la mia intenzione di “chiedere maggiore trasparenza alla Repubblica Popolare Cinese, soprattutto in merito al grave occultamento dei dati sull’epidemia COVID-19 nelle prime settimane, laddove una maggiore correttezza da parte delle autorità cinesi e un’azione risoluta avrebbero potuto evitare milioni di morti e indicibili sofferenze”.

“Un’indagine sulle origini [del COVID] è di cruciale importanza”, ribadivo, “e mi pregio di insistere affinché si lavori con la correttezza e la chiarezza che finora è mancata”. In quella mail sottolineavo ancora quanto fosse importante, come governo degli Stati Uniti, essere certi delle nostre accuse al governo cinese prima di renderle pubbliche:

“[Dobbiamo] essere certi che le nostre affermazioni siano solide e scientificamente verificate onde evitare imbarazzi e perdere di credibilità presso l’opinione pubblica… Come ho ribadito più volte, se le tue conclusioni saranno accertate, sarò in prima fila ad urlare sui tetti contro di loro. Potreste avere ragione, ma voglio essere sicuro che i fatti siano accertati… Si tratta di questioni di estrema importanza, che dobbiamo indagare fino in fondo, ma in modo rigoroso, documentabile e sincero”.

Da qui la mia irritazione, espressa in quel messaggio, per il fatto che DiNanno si fosse mostrato indolente “nell’organizzare le verifiche a livello scientifico e di intelligence del lavoro di David [Asher]”. Mettevo quindi in guardia DiNanno sul fatto che tutto questo potesse produrre effetti negativi: “Per favore, non continuare a dare l’impressione che l’AVC tema una revisione imparziale” e insistevo affinché mi comunicasse al più presto quando sarebbe avvenuta la verifica scientifica delle accuse. Tutto questo è lì nella mail.

Il giorno dopo, il 5 gennaio, non avendo ricevuto risposta da DiNanno, gli ho inviato una nuova mail (questo il messaggio in fondo alla stringa della posta elettronica del 5-6 gennaio pubblicato da Fox News):

“Sta diventano imbarazzante, per non dire preoccupante, il fatto che AVC dia l’impressione di evitare di assumersi l’impegno di far valutare agli esperti le accuse mosse contro il WIV, mentre continuano da circa un mese a circolare notizie e denunce in merito diffuse dall’agenzia presso l’opinione pubblica”.

DiNanno rispondeva alla mia mail del 5 gennaio con banalità come se non stessero facendo altro che “indagare su potenziali violazioni del controllo degli armamenti”. (Ecco il passaggio centrale nella stringa del 5-6 gennaio.) “Questo è [sic] esattamente ciò che abbiamo fatto”, dichiarò, “e che continueremo a fare”.

Fermiamoci un momento a questo punto. Il lettore attento avrà notato che con un commento come “indagare su potenziali violazioni del controllo degli armamenti”, DiNanno abbia puntualizzato come AVC non stesse tanto indagando sulle origini di SARS-CoV-2, quanto, più specificamente, sulla presunta violazione della Convenzione sulle armi biologiche da parte della Cina attraverso la creazione del virus. In questo modo nell’AVC si mostravano convinti che COVID-19 fosse un esperimento di armi biologiche (BW) andato storto – o addirittura un agente BW deliberatamente scatenato segretamente contro il resto del mondo da Pechino dopo aver vaccinato la propria popolazione, come peraltro suggerito pubblicamente da Asher, in modo piuttosto sorprendente, dopo che il Dipartimento di Stato ha rescisso il suo contratto di consulenza. (E’ possibile apprezzarlo in tutta la sua sobria, cauta, metodica boria in un video su YouTube). In un quadro simile, non sorprende – come ricordavo anche nella mail del 4 gennaio a DiNanno – che nel briefing di dicembre, quando l’AVC mi ha esposto per la prima volta la sua teoria sulle origini del virus, Asher a un certo punto abbia ipotizzato che SARS-CoV-2 fosse un “agente selezionato geneticamente” (GSA) che la Cina stava usando per colpirci, come dimostrato, diceva, dal fatto che gli Stati Uniti presentavano un numero incomparabilmente più alto di casi rispetto all’Africa subsahariana. (Naturalmente non c’è bisogno che stia qui a spiegare perché si trattasse di un’ipotesi insostenibile sotto il profilo analitico, oltre a presentare implicazioni di inaudita gravità.)

Fortunatamente, però, nella sua risposta del 5 gennaio DiNanno mi informava anche del  fatto che AVC aveva finalmente costituito un gruppo di esperti per verificare scientificamente la tesi e che si sarebbe riunito nella serata di giovedì 7 gennaio. (Alla buon’ora! Come si evince dalla mia mail del 4 gennaio avevo chiesto un esame scientifico relativo agli aspetti “statistici” della teoria di AVC sin da quando mi era stata esposta per la prima volta nel mio ufficio a dicembre.)

Nell’attesa che si riunisse il panel, tuttavia, scrivevo nuovamente a DiNanno il 6 gennaio, per sottolineare quanto fosse importante che scienziati autorevoli esaminassero le accuse di AVC prima che accuse così gravi fossero rese pubbliche: “Come ho detto prima, essere in possesso di informazioni che suonano come scientifiche presso un pubblico profano non equivale ad essere corretto. Non ho le competenze scientifiche per sottoporre a critica le conclusioni di David. E nemmeno tu. Ma neanche lui ha una formazione appropriata sotto il profilo tecnico su questi argomenti. Ciò non significa che abbia torto, ovviamente, ma questo aspetto presenta delle implicazioni su come debba essere affrontata una questione complessa e controversa con cui voi ragazzi vi state confrontando, trattando le bioscienze con superficialità… Se hai ragione, dovresti essere disposto a dimostrarlo confrontandoti con veri esperti della materia che, a differenza di coloro che hanno costruito e argomentato la teoria, abbiano competenze specifiche nell’ambito scientifico in cui ti stai avventurando. Davvero non riesco ad immaginare come avrei potuto essere più chiaro su questo da un mese a questa parte. Le tue accuse sono gravi e, potenzialmente, dirompenti e proprio per questo devono essere verificate e valutate con estrema attenzione… Le tue denunce devono essere valutate da esperti qualificati e non semplicemente lanciate su una serie di diapositive dinanzi a un pubblico composto da non scienziati col rischio che possano poi essere confutate”.

Era di estrema importanza ottenere una conferma scientifica da parte delle teorie avanzate da AVC sull’origine in laboratorio del virus, perché sino a quel momento l’indagine di AVC aveva dato l’impressione di aver sistematicamente aggirato gli esperti del Dipartimento di Stato e la stessa comunità di intelligence degli Stati Uniti. Come spiegavo nel mio messaggio dell’8 gennaio, “a quanto pare AVC ha informato di tutto questo alcuni elementi del Dipartimento e alcuni partner di altre agenzie per diverse settimane, ma sembrerebbe che su indicazione di un membro dello staff del S/P [Ufficio di programmazione politica del Dipartimento] abbiano evitato di informare me ed altri sul lavoro d’indagine, nonché la comunità di intelligence nel suo complesso”.

(Breve nota a piè di pagina, ma, credo, significativa: l’ultima osservazione contenuta nella mail, quella relativa all’esclusione degli esperti, mi è stata suggerita, in qualche modo, dallo stesso Tom DiNanno. Quando gli chiesi perché l’AVC avesse eseguito l’inchiesta senza coordinarsi con l’alto funzionario di riferimento…cioè, io –  mi rispose timidamente che gli era stato ordinato di comportarsi così da Miles Yu, membro dello staff del S/P dell’epoca. Stando a DiNanno, Yu avrebbe detto che queste specifiche istruzioni provenivano direttamente dal Segretario di Stato. DiNanno non sembra aver verificato quanto detto da Yu, ma di essersi fidato sulla parola, in virtù del ruolo da lui ricoperto, quello di sottosegretario di Stato de facto. Sarebbe interessante a questo punto capire se: (1) davvero il Segretario di Stato Pompeo ha ordinato di non coinvolgere nell’inchiesta sulle fughe da laboratorio condotte da AVC gli esperti di guerra biologica del Dipartimento, nonché i funzionari dell’intelligence statunitense, portando avanti il lavoro in segreto, senza comunicarlo nemmeno al funzionario facente funzioni di Sottosegretario con delega al controllo degli armamenti e la sicurezza internazionale; (2) Yu, almeno sotto questo aspetto, si sia rivelato un consulente scorretto; o (3) DiNanno mi abbia mentito a proposito della sua conversazione con Yu. Forse un bravo giornalista potrebbe scoprirlo.)

3) il panel di esperti

In ogni caso, finalmente il 7 gennaio si sarebbe potuta avere la possibilità di sottoporre a verifica scientifica la tesi di AVC secondo cui SARS-CoV-2 sarebbe stato il prodotto di una manipolazione da laboratorio del governo cinese, grazie al gruppo di esperti scelto dalla stessa AVC per discutern la “prova statistica”, nei termini in cui essa era stata data per certa a me e ad altri.

Purtroppo, però, come facevo notare il giorno successivo (8 gennaio) nel mio messaggio, nonostante il mio espresso invito – formulato negli ultimi tre paragrafi della mia mail del 6 gennaio – di mettere in condizione gli altri membri del panel “di leggere il documento in anticipo”, AVC non lo aveva messo a disposizione. Tant’è che l’8 gennaio scrivevo: “AVC non ci ha fornito il documento prima della discussione di ieri, per cui la maggior parte dei membri del panel non ha avuto la possibilità di studiarlo in dettaglio”.

Anche così, comunque, non fu difficile per gli analisti coinvolti notare alcuni difetti di base dell’argomento “statistico”, che era stato presentato durante il panel dallo scienziato a cui AVC aveva affidato il compito di sviluppare quella tesi. (Il suo nome era ampiamento conosciuto, ma avevo deciso di non citarlo nel messaggio che avevo inviato ai colleghi del dipartimento. Ritenevo che gli scienziati convocati dovessero sentirsi liberi nel giudizio: ero preoccupato di cosa avrebbe dichiarato il governo degli Stati Uniti e non volevo che colui che aveva elaborato la tesi fosse trascinato nella mischia in prima persona, anche perché la sua posizione era ormai diventata quella di AVC, che l’FBI si occupava di diffondere.)

Vi risparmio l’elenco dettagliato dei rilievi critici formulati dagli esperti contro l’argomento “statistico” di AVC dopo il primo briefing, consegnatomi già a dicembre nel mio ufficio, anche perché i dettagli salienti è possibile leggerli nel messaggio che ho inviato l’8 gennaio ai colleghi più anziani del Dipartimento di Stato. (In quell’occasione mi sono concentrato sull’argomento statistico, dato il risalto che esso aveva avuto nei briefing di AVC; non pretendevo di riassumere in quel messaggio l’intera discussione sortita durante il panel e tutte le altre questioni sollevate). Come potrà verificare chi avrà interesse a leggere il mio resoconto dell’8 gennaio, le tesi di AVC presentavano notevoli criticità. Nella migliore delle ipotesi non era ancora possibile renderle la posizione ufficiale del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti – motivo per il quale mettevo in guardia i miei colleghi, con la mail dell’8 gennaio, dall’affrettarsi a utilizzare l’argomento “statistico”.

Oggi, grazie a Vanity Fair, sono a conoscenza del fatto che un paio di giorni dopo – allorchè io avevo ormai lasciato il Dipartimento – DiNanno replicò con un suo report al mio promemoria. E’ possibile reperirlo on line, dunque non lo esaminerò adesso. Ma alla luce di quanto ho chiarito con prove documentali in merito a quella che era allora la mia posizione sul tema, è facile dedurre quali e quante distorsioni e falsità contenesse la replica di DiNanno. Sarebbe illuminante leggere adesso in parallelo, con attenzione, i nostri due documenti. Risulterebbe abbastanza chiaro che il suo memo era un elenco pasticciato e scorretto di attacchi infondati contro di me – un insieme rabbioso di insulti sottoposto all’attenzione di persone che non potevano sapere cosa gli avessi scritto nel corso dell’ultimo mese e inviato loro in un momento in cui, essendomi dimesso, lui sapeva bene che non avrei avuto la possibilità di difendermi. (Per fortuna, però, i nostri capi erano persone intelligenti. E’ facile comprendere quanto avessero preso seriamente la nota di DiNanno dal fatto che abbiano poi agito quasi sulla scorta del mio invito a maneggiare con cautela le tesi scientifiche di AVC, piuttosto che sulla base del tentativo scomposto di DiNanno di avallare quelle tesi, facendomi passare per il cattivo. Di questo riparlerò dopo).

In questa lettera aperta non è mia intenzione affrontare problemi di ordine scientifico: li lascio a chi ha i titoli per misurarsi con essi. Come scrissi a DiNanno il 4 gennaio: “Non ho le competenze scientifiche per giudicare le affermazioni di David. E nemmeno tu. Ma neanche lui ha una formazione appropriata sotto il profilo tecnico su questi argomenti”. Questo è il vero motivo per cui ho insistito affinché AVC costituisse un gruppo di esperti e la ragione per cui, dopo la riunione del panel il 7 gennaio, ho ritenuto mio dovere informare i colleghi delle perplessità emerse in quell’occasione. E’ possibile che alla fine la scienza dimostri che SARS-CoV-2 è il risultato di una manipolazione artificiale condotta nel WIV. Ma sarebbe stato irresponsabile da parte nostra assumere ufficialmente questa tesi soltanto sulla base delle prove e degli argomenti messi in campo nel corso della tavola rotonda del 7 gennaio.

4) Basta con accuse assurde

Ora alcuni dei miei ex colleghi – forse imbarazzati dagli episodi descritti – mi accusano di aver tentato di impedire l’indagine sull’ipotesi della fuga da laboratorio e di aver provato ad affossarla. (Ringrazio Tucker Carlson per avermi mosso per ben due volte questa accusa in televisione, scatenandomi contro un’ondata di violenza e di odio. Ecco, ad esempio, una mail che ho ricevuto il 3 giugno, subito dopo essere stato accusato per la prima volta da Carlson durante il suo show: “Vaffanculo globalista del c… Perché diavolo hai boicottato la teoria sulla fuga da laboratorio? Vai a leccare i piedi ai comunisti cinesi”. Messaggio spedito dall’indirizzo mail cantcuckthetuck@gmail.com. Ringrazio ancora Tucker per avermi presentato questi nuovi amici.)

Eppure nessuna persona seria, che sia a conoscenza del mio carteggio con AVC potrebbe anche solo lontanamente pensare che fosse mia intenzione impedire l’indagine sull’ipotesi di laboratorio. Lo si evince ampiamente dalle mie mail del 4 e 5-6 gennaio (sono on line ed è possibile rileggerle anche nella loro interezza). Al contrario è evidente che ho sempre ritenuto della massima importanza indagare a fondo su questa ipotesi, sottolineando che “se si scoprisse che le conclusioni [di AVC] sono esatte”, io stesso sarei il primo ad attaccare pubblicamente la Cina.

Un’ulteriore prova del mio personale impegno ad indagare sul WIV – e della mia cautela volta a proteggere l’inchiesta dal discredito e dal ridicolo che l’avrebbe soffocata nella culla, qualora avessimo fatto assumere ufficialmente al Segretario di Stato Pompeo e al Dipartimento una posizione facilmente smontabile dal punto di vista scientifico – è rilevabile proprio nel mio messaggio dell’8 gennaio, allorché ribadivo:

“Se fondate, le conclusioni di AVC sarebbero estremamente importanti…Tutti i partecipanti [al panel del 7 gennaio] sembrano…concordare sul fatto che la Cina dovrebbe essere sollecitata a fornire alcune risposte, tra cui la natura degli esperimenti effettuati a WIV sui nuovi coronavirus, se ci sono stati incidenti nel laboratorio, quali sono i dati presenti nel database di sequenziamento del WIV (misteriosamente messo off line all’inizio della pandemia) e quando precisamente la Repubblica Popolare Cinese si è resa conto (in contrasto con quanto rappresentato in precedenza) che SARS-CoV-2 era presente nei campioni ambientali del “mercato umido” – e non nei campioni di animali vivi – portandoli a concludere che il mercato di Wuhan non era la fonte dell’epidemia. Con domande del genere potremmo esercitare una forte pressione sulla Cina, pretendendo risposte puntuali ed evidenziandone la mancanza di trasparenza per non aver riferito (o aver addirittura coperto) informazioni sensibili”.

E sempre l’8 gennaio ho esplicitamente invitato “AVC e ISN [l’Ufficio per la sicurezza internazionale e la non proliferazione] a collaborare alla stesura di un elenco di quesiti e di punti critici da utilizzare” per mettere Pechino sotto pressione. Insomma, sarebbero questi i comportamenti di un “pezzo di merda globalista” che “lecca i piedi ai comunisti cinesi”, o piuttosto quelli di un amministratore serio, che vigila sulla correttezza e l’integrità intellettuale del processo decisionale del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America, in modo da garantirne la credibilità, evitando posizioni avventate che avrebbero screditato l’ipotesi della fuga da laboratorio? Il lettore può farsi da solo un’idea.

5) Valutazioni precise

E a questo punto?

A questo punto chiunque abbia voglia di capire realmente quali fossero le mie intenzioni in quel periodo caratterizzato da duri scontri in senso al Dipartimento di Stato, ora è in possesso della mia versione dei fatti, supportata da documenti interni coevi. In sintesi: personalmente ritenevo folle rendere pubbliche le conclusioni scientifiche di AVC – come avevano esortato a fare DiNanno e Asher – rilasciando alla stampa dichiarazioni ufficiali e intraprendendo iniziative presso i governi stranieri (inclusa la Cina) volte a scoprire se la Cina avesse violato la Convenzione sulle armi biologiche con questo coronavirus, senza aver prima sottoposto a verifica scientifica e imparziale simili accuse.

Desidero essere assolutamente chiaro: da dove ero seduto in quel momento,  ovvero sulla poltrona di Sottosegretario di Stato per il controllo degli armamenti e la sicurezza internazionale, non ho mai riscontrato alcun tentativo messo in atto dal Dipartimento di Stato volto a impedire l’indagine sull’ipotesi lab-leak. Al contrario – come si evince dai documenti – ho sostenuto la necessità di verificarla. Mi interessava a tal punto arrivare alla verità sul WIV che ho insistito affinché si facesse un lavoro inconfutabile. (Se una cosa ti sta davvero a cuore, hai il dovere di assicurarti che sia fatta nel migliore dei modi, altrimenti la stai sabotando). Non mi risulta che nel Dipartimento ci fosse qualcuno che la volesse ignorare o escludere a priori.

Insomma non c’era nessuna cospirazione in atto volta ad insabbiare l’inchiesta, almeno non al Dipartimento di Stato. C’era solo la richiesta di procedere con il massimo rigore intellettuale e di giungere a conclusioni scientificamente difendibili ed accurate. Di tutto questo, non mi scuso. Facevo solo il mio dovere.

E dopo cosa è successo? A quanto pare i miei superiori al Dipartimento di Stato hanno ritenuto valide le considerazioni che avevo formulato l’8 gennaio sulle debolezze della presunta prova “statistica” rilevate dal gruppo di esperti riunito il giorno prima da AVC. Lo testimonia il fatto che né il Segretario di Stato Pompeo, né alcun altro funzionario in servizio, abbiano assunto posizioni sull’origine artificiale del virus presso il WIV sulla base delle considerazioni e delle argomentazioni precedentemente diffuse da AVC. Pompeo, al contrario, il 15 gennaio rese pubblica una “nota informativa” in cui si riportavano accuratamente i rapporti d’intelligence de-secretati che apparivano rilevanti per l’ipotesi lab-leak.

Essendo i miei superiori personalità dal carattere tutt’altro che timido, non ho dubbi che se avessero ritenuto le tesi di AVC scientificamente fondate non avrebbero avuto alcun timore ad avanzarle pubblicamente e ad alta voce. Eppure hanno preferito non farlo. Non posso non sospettare, a questo punto, che si sia trattato di una silenziosa approvazione delle mie considerazioni sull’inopportunità di affrontare la “prima serata” sulla base delle considerazioni di AVC.

(Sarebbe interessante che qualcuno chiedesse ai miei ex superiori cosa pensassero esattamente dell’argomento “statistico” di AVC sulla variazione genomica e perché – se era davvero così probante scientificamente – lo abbiano abbandonato. Di certo posso dire solo una cosa: non è stata una mia decisione. L’8 gennaio, dopo aver invitato alla cautela con la mia lettera, avevo già lasciato il Dipartimento. Sarebbe interessante sapere quali discussioni si siano tenute successivamente).

Penso, però, che quanto successo dopo sia significativo. Piuttosto che concentrarsi su presunte “prove scientifiche” , la discussione pubblica sull’origine del COVID si è spostata sugli interrogativi e sui sospetti sollevati sul WIV dalle notizie di intelligence riportate nella “nota informativa” del Segretario Pompeo. Era questo, a mio avviso, il modo migliore di procedere. Prima di lasciare il Dipartimento, infatti, avevo personalmente rivisto e corretto una prima bozza di quella “nota”, mentre le informazioni de-secretate cominciavano a circolare per ottenere dalle agenzie l’autorizzazione alla loro divulgazione. Fui contento di vederle emergere pubblicamente il 15 gennaio. L’amministrazione Biden non ha sollevato dubbi su quei rapporti e oggi è in corso un dibattito pubblico robusto sulla possibile origine di laboratorio del virus.

In tutta franchezza, credo che chiunque abbia a cuore che l’ipotesi della fuga da laboratorio sia presa sul serio dovrebbe essermi grato, invece di diffamarmi. Se non avessi insistito affinchè le conclusioni di AVC fossero sottoposte a controllo scientifico, l’ipotesi ne sarebbe uscita screditata.  Se oggi abbiamo un dibattito pubblico serio in proposito lo si deve al fatto che il Dipartimento di Stato non ha assunto, all’epoca, come propria posizione ufficiale, affermazioni dal tenore scientifico che non avrebbero resistito al vaglio degli esperti.

E’ un po’ di tempo che mi occupo di controllo degli armamenti e di sicurezza internazionale: dal 2003 al 2006 sono stato vice segretario aggiunto di quello che oggi è l’AVC Bureau. Come ho detto a un amico qualche giorno fa – un vecchio e caro amico, ex collega, che oggi mi demonizza dando credito alle bugie sparse su di me su questi temi – l’onestà, la precisione e la serietà intellettuale sono le armi più potenti a disposizione di chi si occupa di queste cose. Sono qualità che vanno salvaguardate ad ogni costo. Distinguono chi dice la verità dal fanatico ideologizzato. Sono addolorato per l’ignobile campagna mediatica imbastita contro di me, ma sono orgoglioso di essere stato fedele a questi valori in un momento in cui altri funzionari hanno avuto la tentazione di deviare da essi. Spero vivamente che adesso sia possibile mettere da parte gli scontri interni per concentrarci sul nostro vero compito: capire cosa diavolo è successo a Wuhan.

6) Conclusioni

Mi rendo conto che l’esposizione dettagliata e documentata delle lotte che si sono tenute all’interno del Dipartimento di Stato possa risultare un po’ noiosa. Di certo si discosta dalla narrazione moralistica che preferisce rappresentare eroi coraggiosi impegnati a combattere, in nome della giustizia, contro i malvagi e la corruzione all’interno delle istituzioni. Non è nemmeno in grado di sollecitare sproloqui che provochino indignazione: cose modeste come la “verità” mal si adattano a narrazioni sexy, condite di inganni e cospirazioni.

Eppure questi sono i fatti, verificabili documentalmente, e registrano le posizioni da me assunte in quel frangente. Se tutto questo è poco interessante per te che leggi, evidentemente hai davanti la lettera sbagliata e mi scuso per averti fatto perdere tempo.

In caso contrario, vuol dire che la realtà dei fatti per te è importante, per cui ti ringrazio per avermi prestato attenzione.

Categorie
Approfondimenti Dal Mondo

Africa: l’hub del narcotraffico diretto in Europa

Anche per colpa dell’Europa

Sono sempre più evidenti gli effetti negativi della presenza francese in Africa. Non soltanto le ex colonie di Parigi continuano ad essere dipendenti economicamente e finanziariamente dalla Francia, ma, ciò che è più grave, questa mostra serie difficoltà a garantire la sicurezza nella regione.

Una serie di fatti recenti, ad esempio, dimostrano come esista un legame diretto tra le crescenti minacce terroristiche in Africa e l’aumento dei volumi del traffico di stupefacenti (cocaina, eroina, metanfetamine, ecc) diretto, attraverso il continente nero, in Europa.

I legami tra droga e jihad

La presenza di truppe straniere in Africa non è riuscita a ridurre il numero di cellule terroristiche e fondamentaliste: al contrario, negli ultimi tempi il numero di attacchi è considerevolmente aumentato, soprattutto nell’area del Sahel. Nonostante una presenza militare sempre più consistente di paesi europei (soprattutto Francia e Gran Bretagna), Stati Uniti e organizzazioni internazionali, le insurrezioni di marca jihadista aumentano e i gruppi islamisti si sono notevolmente rafforzati.

In virtù del suo passato coloniale, la Francia continua ad essere uno degli attori principali dello scenario africano, ma la sua capacità di influenza va attenuandosi con il trascorrere del tempo. Se prima la presenza militare di Parigi era percepita come un fattore di stabilizzazione del contesto, con effetti persino positivi per le popolazioni, oggi l’armée viene vista esclusivamente come un’odiosa forza di occupazione.

Lo stesso concetto di Françafrique che un tempo legittimava l’egemonia francese in una logica di aiuto e protezione, è oggi al contrario sempre più inteso dall’opinione pubblica locale come un paradigma esclusivamente neo-coloniale. L’anarchia monta e con essa prosperano bande e cellule jihadiste sempre più incontrollabili.

Lo scorso 12 settembre in Mali dei banditi hanno aggredito impunemente alcuni camionisti marocchini mentre ad agosto un’organizzazione jihadista in Burkina Faso ha ucciso 47 persone (di cui 30 civili). Sono solo due esempi recenti, ma gli episodi analoghi si susseguono senza che le truppe straniere costituiscano un credibile deterrente.

In un contesto così instabile a prosperare non sono soltanto la violenza e il terrorismo, ma anche il business della droga. La condizione di arretratezza in cui versano le ex colonie francesi ha favorito il diffondersi della corruzione e del radicalismo, che trovano terreno fertile in un contesto con tassi altissimi di povertà e disoccupazione, dove i giovani quando non emigrano, finiscono facilmente per dedicarsi ad attività illegali e all’uso di sostanze stupefacenti. Allo stesso tempo è molto forte la contiguità tra gruppi terroristici e produttori di droga e narcotrafficanti.

Da tempo l’ONU ha lanciato l’allarme a proposito dell’aumento della produzione e del transito di sostanze illecite in Africa diretto verso l’Europa. Secondo gli esperti la situazione si è aggravata con la campagna militare francese del 2013, mentre i blocchi causati dalla pandemia di COVID-19 non hanno affatto ridotto l’attività dei trafficanti, che semmai l’hanno addirittura intensificata.

Le cifre del fenomeno

Secondo le statistiche delle Nazioni Unite, 275 milinioni di persone l’anno scorso hanno fatto uso di sostanze stupefacenti, il 22% in più rispetto al 2010.

L’ONU prevede che entro il 2030 il numero dei tossicodipendenti aumenterà di un ulteriore 11%, il 40% del quale sarà costituito da africani. Secondo gli analisti negli ultimi anni le reti di fornitori di cocaina in Europa sono diventate più efficienti e il numero di spedizioni è significativamente aumentato come dimostra un altro rapporto delle Nazioni Unite.

Alcune zone dell’Africa oltre ad essere aree di transito, a causa dell’abbondanza del prodotto disponibile, stanno diventando anche aree di consumo di cocaina: una parte di questa passa attraverso l’Africa occidentale e la costa atlantica, il resto viaggia verso il Nord Africa diretto verso il Mediterraneo.

Le rotte proibite dell’Africa

Sebbene stia intensificando la propria capacità produttiva, l’Africa, come detto, continua ad essere soprattutto una zona di transito in cui viene stoccata la droga proveniente dal Sud America in attesa di essere trasferita verso l’Europa, dove risiede il grosso dei consumatori finali. Le sostanze principali (come la cocaina) provengono da Colombia, Bolivia e Perù attraverso i porti di Brasile, Venezuela ed Ecuador.

Una parte consistente della merce proveniente dall’America Latina arriva in Senegal, Guinea, Guinea-Bissau e Costa d’Avorio prima di giungere a Bamako, nel Mali, dove viene presa in carico dagli islamisti locali, che a loro volta la rivendono ai narcotrafficanti del posto.

Come è possibile evincere dalle mappe elaborate dagli esperti dell’ONU, nel 2020, rispetto all’anno precedente, importanti sequestri di droga sono stati effettuati in nuovi paesi, tra cui Nigeria, Camerun, Angola, Zimbabwe e altri, segno che il raggio d’azione dei trafficanti si va allargando a macchia d’olio, mentre Conakry, la capitale della Guinea, continua ad essere uno dei santuari del narcotraffico del continente.

Una delle principali rotte di transito attraverso cui gli stupefacenti dall’Africa giungono in Europa è quella che passa per la Libia (e per l’Egitto), completamente in preda al caos dopo la fine del regime del colonnello Gheddafi. La Libia è stata una zona di transito per la droga sin dagli anni ’90, ma dopo il 2011 questo business è letteralmente esploso, perfettamente inquadrato nelle lotte di potere tra fazioni e clan rivali. Anche qui, come nel Sahel, lo stato di anarchia politica ha favorito l’ascesa di gruppi criminali, che gestiscono i carichi di droga provenienti dall’Algeria meridionale e dal Niger e li spediscono in Europa.

Ma non è solo la cocaina sudamericana ad affluire in Libia attraverso il Mali, anche l’eroina afghana batte gli stessi percorsi, con le città di Sebha e Ubari divenute ormai grandi centri logistici dei contrabbandieri del deserto diretti verso le coste libiche, che altri narcotrafficanti preferiscono invece raggiungere via mare costeggiando il Marocco e l’Algeria.

Dove sono le organizzazioni internazionali?

Di fronte a questi dati è inevitabile chiedersi cosa facciano le organizzazioni internazionali e per quali motivi il loro peacebuilding risulti del tutto inefficace. Uno degli obiettivi espliciti del progetto MINUSMA delle Nazioni Unite, per esempio, era proprio quello di stroncare il narcotraffico africano. Ma come evidenziato dagli autori del rapporto sul traffico di stupefacenti in Mali di The Global Initiative.

MINUSMA si è rivelato un fallimento. Inoltre lo stesso personale dell’organizzazione è stato ripetutamente accusato di legami con criminali e militanti islamisti.

Il vero problema è la vastità di interessi incofessabili collegati al business del droga, che spesso coinvolge anche politici e uomini d’affari apparentemente puliti. Oltre al traffico illegale, al contrabbando e alle molteplici zone grigie, ci sono numerose aziende farmaceutiche senza scrupoli dell’UE che utilizzano questi prodotti. Il caos politico favorisce, inoltre, l’ingerenza, anche economica, delle vecchie potenze coloniali, senza contare che quella stessa anarchia è il brodo di coltura ideale per le formazioni islamiste, sia per aggregare seguaci, sia soprattutto per finanziarsi attraverso attività e commerci illeciti.

La questione europea

In Europa le principali rotte del traffico di stupefacenti passano attraverso la Spagna, il Portogallo, il Belgio e i Paesi Bassi da dove poi la merce viene distribuita in tutta l’Unione Europea. Società fittizie e grossi pusher si occupano o di consegnarla  alle imprese farmaceutiche impegnate nella produzione di analgesici oppioidi o di venderla pura ai consumatori.

Gli Stati europei non sono in grado di risolvere il problema. Sono in troppi a beneficiare di questo sporco affare. D’altronde una parte rilevante del problema è rappresentata dall’approccio neocolonialista che paesi come Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti continuano ad avere nei confronti dell’Africa, depredando risorse e seminando conflitti e anarchia.

Nel giugno di quest’anno il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che le truppe francesi – circa 5.000 uomini- saranno ritirate dall’Africa e chiuse le basi militari nel Sahel. La decisione non sorprende: cresce nella regione un forte sentimento antifrancese, con un alto numero di proteste (in Senegal, Ciad, Mali, Niger, Mauritania ecc.) che chiedono il ritiro della missione militare.

Ordine e pace sono possibili in Africa soltanto se essa troverà partner disponibili a dialogare e ad operare su di un piano di parità e di reciprocità. Il continente cerca alternative e non è un caso se negli ultimi anni diversi Stati africani hanno avviato una forte cooperazione con la Cina (la “Nuova Via della Seta” assicura prestiti ed investimenti), la Russia (assistenza in funzione anti-jihadista, programmi energetici e di implementazione del settore agricolo) e altri. Le classi dirigenti africane dimostrano di essere consapevoli che solo uscendo dalla logica neocolonialista e sviluppando le proprie infrastrutture, potranno riprendere il controllo della situazione, attenuare disordine e illegalità, fornire una prospettiva diversa ai propri giovani, che non sia la tragica scelta tra povertà, violenza o emigrazione.

In ogni caso, il ritiro della Francia dall’Africa aprirà un vuoto che qualcuno cercherà di riempire. Se dovesse riempirlo la Turchia, che da tempo è coinvolta nel ricatto migratorio ai danni dell’Europa, sponsorizza i movimenti islamisti e tende a coprire il traffico di droga libico, i contraccolpi per i paesi del Vecchio Continente sarebbero tutt’altro che positivi.

Categorie
Approfondimenti Dal Mondo

Guinea: se la Françafrique perde pezzi

Il recente colpo di stato in Guinea ad opera del tenente colonnello Mamady Doumbouyalo è la dimostrazione che la Francia sta perdendo la sua tradizionale influenza sulle sue ex colonie africane.

Il presidente Condé, deposto lo scorso 5 settembre, avrebbe potuto tranquillamente essere definito un “uomo della Francia”. Recatosi lì per ragioni di studio a soli 15 anni, aveva conseguito la laurea all’Università di Parigi, specializzandosi in sociologia e diritto pubblico, e aveva insegnato alla Sorbonne. Negli anni ’70 era stato accusato di aver infiltrato in Guinea un gruppo di agenti speciali armati allo scopo di effettuare azioni anti-governative con l’appoggio del Portogallo e per questo era stato condannato a morte in contumacia.

Tornato nel suo paese natale negli anni ’90, si era dato alla politica attiva, fondando un proprio partito politico, il Rassemblement du Peuple Guinée, con scarsi risultati in occasione delle elezioni del 1993 e del 1998.

La sua vicenda politica, in realtà, avrebbe potuto ispirare la trama di un film d’azione: un susseguirsi di ribellioni, proteste, arresti, culminato con il reclutamento di mercenari stranieri allo scopo di rovesciare il regime e l’inevitabile ritirata in Francia, dove sarebbe rimasto fino al 2005.

Solo nel 2010 Condé era riuscito finalmente a prendere il potere e diventare presidente, un presidente-monarca in realtà, ottenendo la rielezione nel 2015, anche grazie all’aiuto della società francese Bolloré Group e della sua controllata Havas

Secondo un politico di orientamento panafricanista del Benin, Kemi Seba, il rovesciamento di Condé, “buon amico di Sarkozy e Soros”, va letto come un duro colpo ai danni della Françafrique (https://www.facebook.com/KemiSebaOfficial/posts/391717145656024).

In un post pubblicato sul suo profilo Facebook mercoledì scorso, Kemi Seba ha affermato: “Prego ardentemente (e mi impegno ogni giorno) affinchè tutti i tiranni della regione francofona dell’Africa cadano a uno a uno e con loro la Françafrique”.

Quanto fosse importante per la Francia Condé è testimoniato dall’ampia copertura accordatagli dai media transalpini, che ne seguivano con attenzione le vicende politiche, laddove quelli britannici si sono sempre limitati a trattare dello sviluppo economico legato alla produzione e al commercio di bauxite.

In realtà anche Doumbouyalo, il leader dei golpisti e capo delle forze speciali guineano, è un ex legionario francese rientrato nel suo paese appena tre anni fa, di cui sono subito emersi gli ottimi legami con gli Stati Uniti d’America. Ma il tema vero su cui è utile riflettere è, più in generale l’incapacità che la Francia sta dimostrando a mantenere l’ordine e il controllo nelle sue ex colonie africane.

Sebbene molto vicino alla Francia, Condé aveva ritenuto indispensabile rafforzare la cooperazione economica con altri paesi: aveva creato stretti legami con la Turchia, corroborati da una salda amicizia personale con Erdogan, al punto che Soner Yalçın, commentando i recenti eventi in Guinea sulle colonne di Sözcü (https://www.sozcu.com.tr/2021/yazarlar/soner-yalcin/erdoganin-kardesine-darbe-6634475/), non ha esitato a definirli “un golpe contro il fratello di Erdogan”. Altri accordi assai redditizi erano stati conclusi soprattutto con la Cina (per un giro d’affari da 3 miliardi di dollari l’anno) e con la compagnia russa UC Rusal.

La strategia del presidente si dispiegava su due assi paralleli: da un lato mantenere uno stretto rapporto politico con Parigi, dall’altro esplorare nuove partnership basate principalmente sull’interesse economico.

La necessità di perseguire una simile politica del “doppio binario” testimoniava già di per sé il declino del sistema della Françafrique. A riprova di ciò ci sono le difficoltà incontrate da Bolloré, grande eminenza grigia della Françafrique insieme ai suoi subordinati di Havas, nel far eleggere negli ultimi anni i suoi candidati e i recenti rivolgimenti verificatisi nel Mali e nella Repubblica Centrafricana. Insomma, nuovi attori vanno progressivamente sostituendosi a Parigi nella regione.

Nonostante i legami tessuti con Cina, Turchia e Russia, Condé restava un uomo cresciuto e formatosi in Francia e le sue logiche di potere si intrecciavano con gli interessi geopolitici francesi. Lo stesso parziale discostamento da questi, non certificava altro che la sua necessità di individuare nuovi interlocutori alla luce delle difficoltà di Parigi a proteggere (e controllare) i suoi vassalli. Come si comporterà adesso Doumbouyalo è un enigma tutto da scoprire.

Turchia, Cina e Russia sono, invece, i nuovi protagonisti delle vicende dell’Africa occidentale e centrale un tempo francese. Ma mentre la crescente influenza di Pechino e Mosca non assume contorni particolarmente pericolosi per l’Europa, l’espansione del raggio d’azione turco suscita preoccupazioni: Ankara sta perseguendo una sua politica neo-coloniale fondata essenzialmente sul soft power, nel caso specifico esercitato attraverso l’islamizzazione della popolazione africana in modo da renderla compatibile con una logica imperiale neo-ottomana (il Diyanetİşleri Başkanlığı) e funzionale, al tempo stesso, al ricatto migratorio con cui la Turchia sollecita l’UE ogni volta che necessita di qualcosa.

Ma se la situazione precipitasse ed Erdogan desse seguito alle sue minacce, scatenando i flussi lungo la rotta del Mediterraneo centrale, l’Italia sarebbe in grado di sopravvivere a una nuova crisi migratoria?