Pur privo di confini terrestri o marittimi con paesi dell’Unione Europea, il Sudan potrebbe presto diventare una nuova fonte di flussi migratori diretti verso il Vecchio Continente. All’inizio di dicembre Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, vice presidente del Consiglio Sovrano di Transizione del Sudan ha dichiarato in un’intervista che l’Europa e gli Stati Uniti potrebbero essere presto interessati da una nuova ondata migratoria, qualora non sostenessero il nuovo regime militare da poco instauratosi nel paese.
“In virtù dell’impegno che abbiamo assunto con la comunità internazionale per ora stiamo ospitando queste persone sul nostro territorio – ha detto Hemeti, parlando in video-call da Khartoum – ma se il Sudan aprisse le proprie frontiere sarebbe un disastro per il mondo intero”.
Lo scorso ottobre i militari sudanesi hanno rovesciato il governo civile provvisorio e hanno assunto direttamente il potere, giustificando il colpo di Stato con la necessità di stabilizzare il paese. USA ed Unione Europea hanno condannato il golpe e per questo il governo sudanese sta ora valutando la possibilità di utilizzare i migranti come strumento di pressione.
L’Europa nuovamente sull’orlo del collasso
Mohamed Hamdan Dagalo e il governo sudanese sanno benissimo che l’Unione Europea su questo tema è particolarmente vulnerabile. E’ dal 2015, quando scoppiò la crisi migratoria dovuta al flusso di rifugiati provenienti dalla Siria, che l’Europa mostra tutta la sua debolezza su questo fronte: una debolezza ben sfruttata dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan che ha ripetutamente ricattato Bruxelles, minacciando di non trattenere sul suo territorio le masse di persone in fuga, ottenendo in questo modo ingenti risorse in cambio dell’accoglienza. Un esempio ripreso dal leader bielorusso Alexander Lukashenko, che recentemente ha cercato di alleggerire la pressione internazionale sul suo paese, strumentalizzando le decine di migliaia di migranti ammassati sul confine polacco con l’intenzione di varcare le frontiere dell’Unione.
Perché, dunque, non dovrebbe provare ad ottenere qualcosa dall’UE anche la giunta militare di un paese dove stazionano oltre un milione di migranti provenienti da altri paesi africani, devastato da guerre esterne e interne (come in Darfur), da tensioni sociali e la cui popolazione, in larga parte, non aspetta altro che di poter fuggire verso le coste europee? I cedimenti di Bruxelles ai vari ricatti che si sono susseguiti sul tema immigrazione, la rendono un facile bersaglio, considerando peraltro che il Sudan accoglie moltissimi rifugiati provenienti dall’Etiopia in guerra, che potrebbe facilmente dirottare in Europa attraverso la Libia.
Il problema libico
E’ evidente che se il Sudan consentisse il passaggio dei profughi verso la Libia, nessuno potrebbe fermarli ed essi si riverserebbero appena possibile sulle coste italiane.
La situazione in Libia è tale, oramai, che nessuno risulta essere in grado di garantire il controllo del territorio. Il paese nordafricano è diventato una piattaforma logistica ideale per il traffico di esseri umani.
Nel 2021sono stati circa 31.500 i migranti intercettati e rispediti in Libia, rispetto agli 11.900 dell’anno precedente, mentre, sempre nel 2020, circa 980 sono risultati morti o dispersi.
La situazione, di fatto, è ingestibile. Ogni qual volta gli uomini della missione Frontex tentano di fare qualcosa per arginare il flusso, magari negoziando con le milizie che controllano il territorio libico, immediatamente i media lanciano critiche feroci, evidenziando le condizioni disumane in cui versano i migranti trattenuti nei centri della Tripolitania. La tesi di fondo, spesso sottaciuta, talvolta enunciata esplicitamente, è che sarebbe meglio accogliere milioni di africani nell’UE, piuttosto che consentire ai banditi libici di ridurli in schiavitù. Un modo di ragionare che fa oggettivamente il gioco dei trafficanti di esseri umani.
L’alternativa agli scafisti è rappresentata dai voli diretti dalla Libia verso l’Europa organizzati sotto l’egida ONU.
Un tale approccio lancia un messaggio che conduce in un vicolo cieco, perché incoraggia la migrazione legale, col suo corollario di morti e di crimini, nonché di minacce geopolitiche, come quelle rivolte all’Europa dai militari sudanesi. Uscire dalla retorica dei liberal e dei tecnocrati dell’ONU e dell’UE è solo il primo passo necessario per rendere l’Europa meno vulnerabile.
Il 24 novembre, l’Alta commissione nazionale elettorale libica ha annunciato la lista provvisoria dei candidati ammessi alle elezioni presidenziali: in tutto 73. La commissione ha respinto 25 candidature tra cui quella di Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi, il quale ha tuttavia presentato ricorso contro la decisione: a breve se ne saprà l’esito.
Teoricamente le elezioni alla carica di Presidente della Repubblica in Libia dovrebbero tenersi il 24 dicembre, mentre il mese successivo dovrebbero esserci quelle parlamentari. L’obiettivo è quello di definire il quadro politico e porre fine alle divisioni e alla guerra civile.
Il disastro libico
Dal 2011, ovvero da quando Muammar Gheddafi è stato rovesciato e ucciso, la Libia è in preda al caos. Una guerra civile di tutti contro tutti, con fazioni e milizie impegnate a combattersi in diverse parti del paese e signori della guerra pronti a cambiare alleanze in base alle convenienze del momento.
Inevitabilmente, con una situazione così instabile, le reti criminali e terroristiche hanno prosperato e continuano a prosperare. Non è un caso che fino a qualche anno fa in Libia fosse presente una delle roccaforti dell’ISIS. Ancora oggi cellule dello Stato Islamico continuano ad operare in territorio libico, così come gruppi terroristici e ribelli provenienti dal Ciad e dal Sudan.
Attraverso la Libia e le sue coste resta costantemente attiva una delle principali rotte attraverso cui i migranti illegali dall’Africa giungono in Europa, molti dei quali radicalizzatisi nei campi libici.
Il conflitto civile libico ha anche determinato problemi all’approvvigionamento petrolifero dell’Europa, che durante il 2020, al culmine dello scontro militare tra il Governo di Accordo Nazionale di Fayez al-Sarraj e il generale Khalifa Haftar, aveva conosciuto addirittura un blocco totale.
Ovviamente è l’Italia il paese che continua a subire le ripercussioni più gravi da questa situazione.
Finora nessuno degli accordi stipulati tra il “governo” libico e l’Unione Europea o l’Italia finalizzati al contenimento dell’immigrazione ha davvero funzionato e questo perché le autorità di Tripoli restano ostaggio dei gruppi armati locali, diversi dei quali di matrice islamista, che controllano la città.
Gheddafi 2.0
Fino al 2011 Saif al-Islam era apparso come il più “liberale” tra i figli di Gheddafi, ma di fronte alle prime proteste contro il regime, inaspettatamente, aveva subito assunto una posizione molto dura contro i ribelli. Sin dall’inizio Saif aveva previsto che il rovesciamento del padre avrebbe portato il paese alla guerra civile, al crollo dei confini, alle migrazioni di massa e reso la Libia un rifugio sicuro per i gruppi terroristici.
“La Libia sarà distrutta – affermò – ci vorranno 40 anni per raggiungere un accordo su come gestire il paese, perché tutti vorranno diventare presidente o emiro e assumere il comando”.
La storia gli ha dato ragione.
Oggi, nonostante sulla sua testa penda un mandato della Corte penale internazionale delle Nazioni Unite, Saif al-Islam ha deciso di avanzare la propria candidatura alla presidenza della Libia. Sulla carta è considerato, nonostante tutto, uno dei candidati più forti. Gli analisti occidentali ritengono che goda del sostegno di tre libici su quattro e che sia l’unica personalità davvero in grado di ricostruire l’unità del paese.
Saif non ha preso direttamente parte alla guerra civile, non ha partecipato al tracollo del paese che ha reso la Libia un immenso campo di battaglia. Molti gli riconoscono di essere stato l’unico a prevedere cosa sarebbe accaduto con il rovesciamento del padre.
La sua popolarità potrebbe consentirgli di ricostruire il sistema politico e istituzionale libico, mentre la sua notevole esperienza in ambito diplomatico, con ottime relazioni nei paesi europei, a cominciare dall’Italia, lo renderebbero un interlocutore affidabile. Naturalmente l’eventuale ritorno di un Gheddafi al vertice del paese viene percepito molto negativamente dagli Stati Uniti, che ne subirebbero un colpo di immagine: sarebbe la conferma che l’intervento NATO e la “rivoluzione” libica non furono altro che una inutile e futile aggressione ai danni di uno Stato sovrano e certificherebbe il definitivo fallimento del progetto “primavere arabe”. Insomma un danno di reputazione paragonabile a quello scaturito dal caotico ritiro dall’Afghanistan.
E’ assai probabile che l’ostilità statunitense abbia influito sulla decisione della commissione elettorale di respingere la candidatura di Gheddafi jr. Eppure, se anche il suo ricorso non andasse a buon fine, è indiscutibile che l’intero processo elettorale subirebbe una forte delegittimazione, considerando il consenso che riscuote in questo momento Saif non solo tra i libici in generale, ma soprattutto tra i militari.
Il Consiglio Supremo delle Tribù libiche ha già avvertito che l’esclusione di Saif al-Islam minerebbe il processo di riconciliazione nazionale, sostenendo inoltre che la sua esclusione è opera dei Fratelli Musulmani e degli “agenti del colonialismo”.
E’ evidente che l’erede di Gheddafi avrebbe bisogno di un sostegno esterno per rimanere in pista e fare fronte contro chi gli si oppone. In teoria questa circostanza potrebbe essere un’opportunità per diversi player internazionali, compresa l’Italia. Così come è chiaro che dovrebbe dimostrarsi in grado di acquisire l’alleanza e l’appoggio di altri candidati alla presidenza.
In ogni caso la sua esclusione potrebbe costituire l’ennesimo fattore di destabilizzazione per la Libia.
Altri contendenti
Ma, a parte Saif al-Islam Gheddafi, chi sono i principali candidati alla presidenza della Repubblica libica? Innanzitutto c’è il generale Khalifa Haftar, con un vasto consenso in Cirenaica e nella Libia orientale, che sotto il suo controllo sono riuscite a ripristinare un ordine sul territorio. Un successo che però si accompagna alla disfatta subita nel 2020, quando ha cercato di completare la conquista del paese attaccando la Tripolitania, mancando l’obiettivo a causa dell’intervento militare turco a sostegno del Governo di Accordo Nazionale.
Anche la candidatura di Haftar ha corso il rischio di essere respinta. Il procuratore militare di Tripoli, vicino all’attuale Governo di Unità Nazionale, ne aveva chiesto l’arresto per crimini di guerra, ma una sua esclusione avrebbe inevitabilmente scatenato la reazione delle sue milizie e il definitivo fallimento del processo elettorale. Seppure le elezioni si tenessero ugualmente l’est e il sud del paese non ne riconoscerebbero il risultato senza la partecipazione di Haftar. A quel punto le votazioni servirebbero solo a redistribuire quote di potere a Tripoli.
Meno popolari di Haftar e Saif, ma sostenuti da gruppi potenti sono, poi, l’ex ministro degli Interni Fathi Bashagha, il Presidente della Camera dei Rappresentanti (il Parlamento di Tobruk) Aguila Saleh Issa e l’ex vicepremier libico Ahmed Maitig. Anche l’attuale primo ministro del Governo di Unità Nazionale Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh ha presentato la sua candidatura.
Quest’ultimo ha subito pesanti accuse di clientelismo e corruzione finalizzate proprio a supportare le sue aspirazioni alla presidenza. Dbeibeh avrebbe distribuito generosamente fondi pubblici a destra e a manca per acquisire consenso: tra i provvedimenti più criticati, quello che prevede l’elargizione una tantum di oltre 8.000 dollari agli sposi novelli. Senza contare il fatto che la legge attuale vieta ai membri del Governo di Unità Nazionale di concorrere alla presidenza.
Insomma la legittimità della sua candidatura è a dir poco discutibile. Quella di Haftar, invece, sebbene sostenuta dall’est, si scontra con l’ostilità dei potenti capi delle milizie contro cui ha condotto la sua offensiva lo scorso anno: solo alleandosi con Saif al-Islam potrebbe aggirarla. In effetti, un ticket Haftar/Gheddafi jr. potrebbe essere la migliore soluzione per la Libia: insieme, i due uomini più popolari del paese (stando ai rilevamenti demoscopici degli analisti), potrebbero pacificarlo e ripristinare l’autorità dello Stato.
Un’ipotesi di scenario possibile, però, soltanto se la commissione elettorale li ammetterà entrambi alle consultazioni e se le milizie islamiste non interferiranno nelle elezioni. In caso contrario la deflagrazione del processo di riconciliazione nazionale sarebbe dietro l’angolo.
Inclusione e compromesso
È chiaro che la riconciliazione e la stabilizzazione in Libia, a cui anche l’Europa è interessata, possono essere raggiunte solo attraverso un compromesso che tenga insieme tutti i principali attori in gioco, ad esclusione dei gruppi maggiormente collusi con il radicalismo e il terrorismo.
Naturalmente anche le potenze straniere coinvolte nello scenario dovrebbero fare la loro parte. La domanda è se Parigi e Washington, i principali artefici dieci anni fa del collasso libico, possano effettivamente portare un contributo positivo; così come ci sono seri dubbi sull’atteggiamento di Ankara, che insiste nel voler mantenere proprie truppe nel territorio in base agli accordi stipulati nel 2019 con l’allora governo di Fayez al Sarraj: la verità è che la Turchia ha scarso interesse alla ricostruzione di una Libia sovrana e indipendente. Un interesse nutrito, al contrario, dai paesi vicini: Tunisia, Egitto, Algeria e, soprattutto, dall’Italia e condiviso da Mosca, che vedrebbe di buon grado una stabilizzazione del quadrante mediterraneo. Dipenderà soprattutto dall’impegno di questi paesi se il dialogo intra-libico, nelle prossime settimane, riuscirà ad evitare di approdare ad un punto morto.
Il governo di Ankara non ritirerà le sue truppe in Libia. Una pericolosa novità sottovalutata dai resoconti dei media relativi al G20 di Roma. Nel corso del summit, infatti, il presidente turco Recep Erdogan ha affermato ufficialmente, e senza mezzi termini, che Ankara rifiuta di ritirare le sue truppe dalla Libia. Una dichiarazione giunta proprio mente l’ONU è impegnata a organizzare e realizzare il ritiro di tutte le truppe straniere presenti nel paese, precondizione indispensabile alla celebrazione delle elezioni che dovrebbero sancirne la pacificazione.
Con questa presa di posizione la Turchia getta mi sul fuoco e minaccia di riportare la conflittualità tra le fazioni che si contendono il potere in Libia a livelli altissimi, mettendo in pericolo il processo elettorale. Una situazione che avrebbe ripercussioni serie e pericolose per l’Italia e per tutta l’Unione Europea.
Primo problema: il ritiro dei mercenari dalla Libia. Le tanto attese elezioni presidenziali dovrebbero avere luogo il 24 dicembre, mentre quelle parlamentari sono previste all’inizio del 2022. La speranza è di chiudere in questo modo il lungo periodo di anarchia e guerra civile in cui è precipitato il paese con la fine del regime di Mu`ammar Gheddafi nel 2011, salvaguardando possibilmente l’unità del territorio libico, oggi di fatto diviso in una parte occidentale sotto il controllo del governo di Tripoli e in una orientale nelle mani del generale Khalifa Haftar e del suo Esercito Nazionale Libico (LNA), impegnato ormai da anni in un duro conflitto non solo con le milizie tripoline, ma anche con i gruppi islamisti, alleati dei turchi. A rendere più complicata la situazione è l’alto numero di forze mercenarie e straniere presenti sul campo, a sostegno dei due contendenti. Proprio per questo la road map concepita dalle Nazioni Unite prevede innanzitutto lo sgombro dei gruppi armati forestieri, da definire attraverso un format di negoziato “5+5”, che vede presenti al tavolo, sotto l’egida ONU, tutte le fazioni in lotta. Lo scorso 8 ottobre, il Comitato militare congiunto “5+5” si è riunito per tre giorni al Palazzo delle Nazioni di Ginevra, concludendosi con la firma di un piano d’azione che prevede un ritiro graduale, equo e coordinato di tutti i mercenari e le forze straniere dalla Libia.
La riunione di Ginevra si è tenuta in linea con i binari tracciati dall’accordo di cessate il fuoco del 23 ottobre 2020 e le relative risoluzioni emesse dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. L’incontro si è configurato come parte integrante di tutti i vari negoziati intra-libici promossi dall’ONU, nonché degli sforzi messi in campo dalla comunità internazionale attraverso la conferenza di Berlino. In questi primi giorni di novembre il Comitato “5+5” ha tenuto un’ulteriore incontro, questa volta al Cairo, sempre organizzato dalle Nazioni Unite, al quale hanno preso parte anche i rappresentanti di Sudan, Ciad e Niger. Nell’occasione, tutti i paesi confinanti con la Libia hanno espresso la loro volontà di cooperare al processo di sgombero dei combattenti stranieri e dei mercenari, mentre i delegati di Sudan, Ciad e Niger si sono impegnati a cooperare per assicurare il ritiro degli uomini armati provenienti dai loro paesi, coordinando le loro azioni, per garantire che questi non tornino in Libia e non destabilizzino gli Stati vicini. Il rifiuto della Turchia di allinearsi agli accordi generali apre, però, un problema gigantesco. Infatti, quasi la metà delle forze straniere presenti in Libia è legata ad Ankara: secondo il SOHR (l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani), il numero totale dei mercenari siriani supportati dai turchi che si trovano nel paese nordafricano è di circa 7.000 unità, laddove le Nazioni Unite hanno stimato la presenza di 20.000 combattenti stranieri sul territorio libico. Sempre fonti del SOHR hanno confermato che, nonostante i tentativi di negoziarne il ritiro a inizio ottobre, i miliziani islamisti veterani del conflitto siriano continuano a stazionare nelle basi turche in Libia, mentre un nuovo contingente di 90 uomini provenienti dalla Siria e giunto in Libia trasportato da apparecchi turchi. G20: diplomazia alla turca Durante il G20, Erdogan, oltre a confermare l’intenzione di non smobilitare i propri uomini in Libia, ha anche ribadito al presidente francese Emmanuel Macron che la presenza turca è legittimata da un accordo di cooperazione militare siglato col governo libico. “I nostri soldati sono lì in qualità di istruttori”, ha ribadito, negando che le loro attività possano essere equiparate a quelle di mercenari illegali.
Le cose, però, non stanno esattamente così. Innanzitutto le sue parole possono valere per il contingente militare ufficialmente inviato dall’esercito turco all’inizio del gennaio 2020, non certamente per i mercenari siriani che continuano a stazionare nelle basi militari di Ankara. Inoltre, gli accordi raggiunti nel vertice dell’8 ottobre a Ginevra riguardano esplicitamente il ritiro di “mercenari, combattenti stranieri e forze straniere”, intendendo per “forze straniere” anche le truppe regolari e gli istruttori. Infine, gli “istruttori” turchi sono sbarcati in Libia in base a un accordo firmato da Ankara nel novembre del 2019 con il Governo di Accordo Nazionale (GNA) presieduto da Fayez al-Sarraj, governo provvisorio cui è seguito lo scorso marzo il nuovo Governo di Unità Nazionale guidato da Abdul Hamid Dbeibah. Il punto dirimente, però, è che all’epoca della stipula del trattato, il mandato del GNA era già scaduto e dunque, in quanto governo provvisorio, esso non aveva il diritto di firmare un tale trattato di cooperazione militare. La stessa ragione per la quale tutti i vicini della Libia e della Turchia hanno disconosciuto il trattato sui confini marittimi (e le relative Zone Economiche Esclusive) contestualmente sottoscritto da Tripoli ed Ankara. Un accordo quest’ultimo che ha notevolmente esteso le rivendicazioni turche sul Mediterraneo e sui suoi ricchi giacimenti di gas e petrolio. E’ per queste ragioni che la presenza militare turca in Libia va considerata illegale in base al diritto internazionale, configurandosi come un avamposto delle ambizioni neo-imperialiste di Erdogan. Non a caso questi, durante il G20, ha annunciato il suo rifiuto a prendere parte al vertice sulla Libia in programma a Parigi (di fatto affondandolo), confermando di non avere alcuna intenzione di supportare gli sforzi internazionali volti a stabilizzare il paese.
“Abbiamo notificato al presidente Macron – ha dichiarato Erdogan – la nostra indisponibilità a prendere parte a una conferenza a Parigi alla quale partecipino Grecia, Israele e l’amministrazione greco-cipriota. Per noi questa è una condizione inderogabile. Se questi paesi saranno presenti, per noi non ha senso inviare delegati”.
A Roma Erdogan ha anche avuto un incontro separato con il presidente del Consiglio Mario Draghi, che però non ha prodotto alcun risultato concreto. Nessun passo avanti è stato fatto nelle relazioni italo-turche, anche per quanto riguarda il sistema di difesa missilistica italo-francese SAMP-T, per il quale la Turchia aveva in precedenza mostrato interesse. Nonostante il generico annuncio di futuri sviluppi in merito, difficilmente la Turchia riprenderà in mano questo progetto se i suoi rapporti con Parigi non miglioreranno. Ed Erdogan non sembra avere voglia di procedere in questa direzione.
Tensioni in Libia Nel frattempo la situazione politica in Libia si fa sempre più precaria, soprattutto dopo che la Camera dei Rappresentanti (il Parlamento di Tobruk) lo scorso settembre, su impulso di Haftar, ha sfiduciato il Governo di Unità Nazionale. Anche dal punto di vista militare le tensioni stanno aumentando, tanto che nei giorni scorsi i capi di due milizie tripoline – Muammar Davi, leader della Brigata 55, e Ahmad Sahab – sono stati vittime di attentati che miravano ad ucciderli. A questo punto è difficile essere sicuri che a dicembre si terranno le elezioni presidenziali, mentre quelle parlamentari sono già state rinviate al 2022. Il ricatto di Erdogan: geopolitica, energia, flussi migratori Se la Turchia ha potuto rafforzare in misura così significativa la sua capacità di influenza in Libia, una parte considerevole della responsabilità va attribuita ai governi presieduti da Giuseppe Conte (in particolare il secondo), caratterizzati da scarsa incisività sul dossier libico. Ricevendo, di fatto, mano libera, Ankara in appena un paio d’anni ha avuto la possibilità di sbarcare nel paese nordafricano centinaia di “consiglieri militari”.
Con il trattato sui confini marittimi e la delimitazione delle rispettive aree ZEE, la Turchia ha assunto il controllo delle coste della Tripolitania, nonché una sorta di patronage sui giacimenti di gas e petrolio del Mediterraneo centrale. La sua influenza politica sul Governo di Accordo Nazionale prima e su quello di Unità Nazionale oggi è enorme. La guerra civile tra Tripoli e Bengasi ha consentito ad Ankara di fornire alla parte occidentale truppe e armi, di reimpiegare le sue milizie mercenarie precedentemente attive in Siria, nonché di ottenere la gestione del porto e dell’aeroporto di Misurata per i prossimi 99 anni. Oggi Erdogan, grazie al forte ascendente che è in grado di esercitare su uno dei più grandi produttori di petrolio del mondo, dispone di un’ulteriore arma di pressione verso l’Europa, quella delle forniture energetiche, che va ad aggiungersi a quella già ampiamente utilizzata relativa al controllo dei flussi migratori, che oggi è in grado di regolare non solo sulla rotta balcanica, ma anche su quella che percorre il Mediterraneo centrale. La più battuta dai trafficanti di uomini, stando a ciò che ci dicono i dati ufficiali, secondo i quali, al 22 ottobre, i migranti giunti in Italia quest’anno sono già 51.568, contro i 26.683 del 2020.
Le richieste di Draghi all’Unione Europea di stanziare fondi per proteggere “tutte le rotte” sono miele per le orecchie turche. Rimandano, infatti, ai 6 miliardi che Bruxelles ha già versato alla Turchia per gestire la rotta balcanica e a quelli che ancora andrà a pagare. Sul suolo turco sono attualmente ospitati 3,7 milioni di siriani, cui vanno aggiunti 300.000 afghani. Una bomba ad orologeria che Ankara minaccia di far esplodere in qualunque momento, qualora le sue richieste non venissero soddisfatte. Insomma le crisi umanitarie – da quella afghana a quella siriana, cui può oramai aggiungersi anche quella libica – sono diventate una straordinaria opportunità per la Turchia di ottenere risorse dall’Europa e tenerla sotto pressione. Per questo mantenere a Tripoli un governo filo-turco è così importante per Erdogan: gli consente di condurre un complesso gioco geopolitico ai danni dell’UE che combina flussi energetici e migratori. Ricomporre un equilibrio nel Mediterraneo e ridimensionare le ambizioni turche con una postura più dura nei confronti del nuovo sultano è la vera sfida che l’Italia deve affrontare, piuttosto che avventurarsi in improbabili e velleitarie aspirazioni a guidare l’UE o a rinsaldare i rapporti trans-atlantici.
I problemi energetici e migratori dell’Europa sono esacerbati dalla Turchia
La sicurezza dell’Europa (e dell’Italia) in termini di approvvigionamento di petrolio e gas è sempre più precaria. Le elezioni presidenziali e parlamentari che avranno presto luogo in Libia potrebbero confermare oppure smentire questo quadro geopolitico, ciò che è certo è che le nuove autorità potrebbero trovarsi a dipendere da Ankara, e con loro anche l’Europa.
Il settore energetico della Libia
La Libia è un fornitore chiave di carburante e gas per l’Italia e altri paesi europei. L’ENI Corporation è il più grande attore nel business energetico della Libia, e per l’Italia è fondamentale continuare ed espandere la cooperazione. Il recente incontro a Tripoli, tra l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi con il primo ministro del Governo di Unità Nazionale della Libia, Abdul Hamid Dbeibeh, dimostra quanto la questione sia prioritaria per l’Italia e l’Europa. Durante l’incontro hanno concordato che l’azienda italiana massimizzerà la produzione di gas in Libia.
Tuttavia, è chiaro che le questioni energetiche sono strettamente legate al successo della diplomazia. La politica estera del nuovo governo libico appare, al momento, totalmente imprevedibile, causando non poco nervosismo nei leader di quei paesi che – a livello energetico – si appoggiano alla Libia.
Tra tutte le ipotesi, lo scenario peggiore si verificherebbe se il nuovo presidente e il Parlamento fossero molto vicini alla Turchia. Ankara, che aumenta la sua influenza attraverso il governo di unità nazionale e le reti locali dei Fratelli Musulmani, potrebbe quindi intaccare fortemente gli interessi dell’Italia. L’Italia si troverebbe costretta a esportare il petrolio dalla Libia o dall’Azerbaigian attraverso la Turchia (passando per il Gasdotto Trans Adriatico).
La seconda opzione è la più instabile che si possa immaginare: in caso di dissidi nelle relazioni diplomatiche con la Turchia, a essere colpito immediatamente sarebbe proprio il comparto energia, con grave danno per l’Italia. Soprattutto considerando l’aumento dei prezzi dell’energia in Europa, una simile eventualità sarebbe disastrosa.
Perché la cooperazione Turchia-Libia è pericolosa?
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è affermato come un leader astuto con ambizioni neo-ottomane, che ha molto spinto per introdurre i propri militari all’interno di Stati vicini, considerati strategici, soprattutto quando questi sono in una situazione di forte instabilità politica. La Turchia, infatti, non ha mai ritirato i militari e i mercenari dalla Siria dalla Libia, neanche dopo i negoziati internazionali delle Nazioni Unite.
Il Ministero della Difesa turco ha detto che il Paese continuerà la cooperazione in materia di sicurezza secondo quanto stabilito da un precedente memorandum.
Non è la prima volta che l’Europa sente un simile ultimatum dalla Turchia. La Turchia ha ripetutamente ignorato le raccomandazioni e gli accordi relativi alla sicurezza e alla fornitura di armi in questi scenari. Erdogan ha anche fatto leva sull’Unione Europea giocando sulla questione della migrazione di massa quando ha minacciato di rilasciare tutti i clandestini diretti verso le coste europee.
Le prossime elezioni in Libia potrebbero rivelarsi drammatiche per l’Europa se la posizione filo-turca delle autorità si rafforza. Per ora, il governo provvisorio del GUN ha già arruolato il sostegno turco. Inoltre, i rappresentanti di organizzazioni radicali come i Fratelli Musulmani – per esempio, il Presidente dell’Alto Consiglio di Stato, Khalid Almishri – stanno collaborando con Ankara.
Se la tendenza continua, il nuovo governo in Libia sarà filo-turco, la Turchia, attraverso le sue reti islamiste, sarà in grado di influenzare le decisioni chiave sui bilanci, i grandi contratti e le consegne, nonché di influenzare la situazione politica interna del Paese nordafricano. L’Italia diventerà un facile ostaggio della questione energetica a causa della Turchia.
Il destino della Libia
Secondo le informazioni attuali, le elezioni presidenziali in Libia avranno luogo il 24 dicembre, mentre le elezioni parlamentari sono già state rinviate a gennaio. La situazione rimane instabile, con le varie frange del potere che già litigano tra loro. Per esempio, il GUN è già diffidato dalla popolazione locale – il 21 settembre, in presenza del suo leader (Agila Saleh) la Camera dei rappresentanti ha approvato un voto di sfiducia al governo di Abdel Hamid Dbeibeh. I parlamentari hanno accusato il GUN di aver stipulato contratti che non erano stati concordati e che potrebbero portare a grandi debiti esterni, così come di aver sottratto grandi somme dal bilancio non approvato.
In un tale ambiente, attori esterni come la Turchia potrebbero facilmente influenzare la destabilizzazione del Paese. A sua volta, le conseguenze di un simile scenario minacciano in primo luogo la stessa Libia: dividendo di nuovo il paese “a metà” e in fazioni separate con i propri interessi). La mancanza di cooperazione internazionale provocherebbe anche un’altra ondata di migrazione incontrollata verso l’Europa.
Gli incontri di Ginevra dei giorni 6-8 ottobre hanno riguardato il ritiro delle truppe straniere dalla Libia. La Turchia sta ovviamente ignorando quanto stabilito dal Comitato militare congiunto 5+5 perché non è interessata alla pacificazione, ma all’ulteriore ottomanizzazione della regione nordafricana. Se l’influenza di Ankara dovesse aumentare, chiunque diventerà il prossimo presidente (anche Khalifa Haftar) sarà condannato ad essere pro-turco o almeno a fare i conti con i diktat della Turchia, ostaggio dei mercenari che Erdogan mantiene sul territorio.
Un governo giovane, progressista, composto esclusivamente da competenti per attuare la strategia di sviluppo del Paese del Re Mohammed VI
Il premier incaricato del governo marocchino, Aziz Akhannouch, uscito vincitore dalle elezioni politiche dell’8 settembre scorso, ha presentato il suo nuovo governo dopo che i ministri proposti sono stati ricevuti dal re Mohammed VI.
Secondo quanto riporta l’agenzia di stampa marocchina “Map”, ad accogliere oggi il nuovo esecutivo, composto da 24 ministri tra cui ci sono 7 donne, oltre al monarca era presente il principe ereditario, Moulay El Hassan. La cerimonia si è svolta nel palazzo reale di Fez.
Oltre al premier Akhannouch ci sono delle conferme rispetto al precedente esecutivo, come il ministro dell’Interno, Abdelouafi Laftit, degli Esteri Nasser Bourita, e degli Affari islamici Ahmed Toufiq, ma anche delle novità come la giovane Nadia Fettah Alaoui che passa da ministro del Turismo a ministro dell’Economia.
Il governo di Akhannouch
Si tratta infatti di un governo giovane, progressista, composto esclusivamente da persone competenti. Un governo capace di attuare la strategia di sviluppo del Paese e la marcia verso l’emersione economica guidata dal re Mohammed VI. Gli altri ministri sono: Abdellatif Ouahbi ministro della Giustizia; Mohamed Hajoui Segretario Generale del Governo; Nizar Baraka ministro delle Attrezzature e dell’acqua; Chakib Benmoussa ministro dell’Educazione Nazionale, della Scuola Materna e dello Sport; Nabila Rmili ministro della Salute e della Protezione Sociale; Fatima Ezzahra El Mansouri, ministro della Pianificazione Nazionale del Territorio, dell’Urbanistica, dell’Abitazione e delle Politiche Urbane; Mohamed Sadiki ministro dell’Agricoltura, della pesca marittima, dello sviluppo rurale e dell’acqua e delle foreste; Younes Sekkouri ministro dell’inclusione Economica, delle piccole imprese, dell’occupazione e delle competenze; Ryad Mezzour ministro dell’Industria e del Commercio; Fatim-Zahra Ammor ministro del Turismo, dell’Artigianato e dell’Economia Sociale e Solidale; Abdellatif Miraoui ministro dell’Istruzione Superiore, della Ricerca Scientifica e dell’Innovazione; Leila Benali ministro della Transizione energetica e dello sviluppo sostenibile; Mohamed Abdeljalil ministro dei Trasporti e della logistica; Mohamed Mehdi Bensaid, ministro della Gioventù, della Cultura e della Comunicazione; Aouatif Hayar, ministro della Solidarietà, dell’Inclusione Sociale e della Famiglia; Abdellatif Loudiyi, ministro delegato presso il Capo del governo responsabile dell’amministrazione della Difesa nazionale; Mohcine Jazouli, ministro delegato presso il Capo del governo incaricato degli investimenti, della convergenza e della valutazione delle politiche pubbliche; Faouzi Lekjaa ministro delegato presso il Ministro dell’Economia e delle Finanze, responsabile del Bilancio; Mustapha Baitas ministro delegato presso il Capo del governo incaricato dei rapporti con il Parlamento, portavoce del governo; Ghita Mezzour, ministro delegato presso il Capo del governo incaricato della transizione digitale e della riforma amministrativa. I segretari di Stato in alcuni dipartimenti ministeriali saranno nominati in seguito.
La Francia non sembra avere intenzione di mollare la sua presa sul Mali dopo il colpo di stato del maggio scorso. Lo testimonia il tenore dell’intervento del delegato di Parigi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che lo scorso 27 settembre ha intimato alle autorità maliane di rispettare la scadenza elettorale prevista per il 27 febbraio 2022.
Il ministro della Difesa francese Florence Parly, da parte sua, si è spinto ancora più oltre, accusando l’attuale capo del governo del Mali, Choguel Kokalla Maiga di ipocrisia, malafede e indecenza.
Precedentemente il premier maliano aveva ipotizzato di rinviare le elezioni presidenziali e parlamentari fissate per febbraio prossimo proprio allo scopo di evitare contestazioni sulla loro regolarità. Maiga aveva anche contestato alla Francia di aver “abbandonato” il paese al suo destino nel bel mezzo di un conflitto civile e che il governo della giunta militare da lui guidato avrebbe cercato altri partner, anche “privati”, per fronteggiare la situazione.
A chiarire il reale significato delle parole del primo ministro maliano era quindi intervenuto il responsabile della politica estera di Mosca Sergei Lavrov che aveva annunciato il raggiungimento di un accordo tra il Mali e una Private Military Company (PMC) russa per proseguire la lotta al terrorismo, confermando quanto riferito dall’agenzia Reuters sul coinvolgimento della PMC Wagner, già presente da tempo e con forza nella Repubblica Centrafricana.
Il nodo elezioni
Dopo il rovesciamento nell’agosto di un anno fa del Presidente della Repubblica filofrancese Ibrahim Boubacar Keita da parte dei militari maliani, le relazioni tra Bamako e Parigi si sono rapidamente deteriorate. Nel giugno 2021, dopo il nuovo golpe della fine di maggio 2021, il Presidente Emmanuel Macron ha annunciato la sua intenzione di ritirare la missione militare francese antiterrorismo dal Mali. Contestualmente la Francia e la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS), molto condizionata da Parigi, hanno cominciato ad esercitare pressioni, sia diplomatiche che economiche, sul Mali affinchè venissero indette nuove elezioni “democratiche” il più rapidamente possibile. L’obiettivo evidente era ottenere il più velocemente possibile la caduta della nuova giunta militare, indebolendone la capacità di interdizione militare rispetto ai gruppi ribelli e scatenando il malcontento popolare.
Proprio le pressioni interne ed esterne avevano indotto nel settembre 2020 i militari maliani a varare la Carta di transizione del Mali, un documento paracostituzionale che definiva i poteri e la durata del governo provvisorio. Il documento era il frutto di un compromesso politico tra i militari e l’opposizione rappresentata dal Movimento 5 giugno-Raggruppamento delle forze patriottiche (M5-RFP), raggiunto grazie alla pesante moral suasion dell’ECOVAS.
L’arrivo del Gruppo Wagner nel paese, però, sembra aver aumentato la capacità negoziale dei militari rispetto all’ex potenza coloniale, al punto che essi sentono di poter disporre di un più ampio margine di manovra e di potersi sottrarre agli impegni presi in precedenza, a cominciare dal nodo elettorale. Il governo maliano rivendica adesso la propria libertà di decidere autonomamente quando fissare la data delle elezioni, in base allo stato dell’ordine pubblico del paese, e di cambiare significativamente le stesse regole in base alle quali svolgerle.
Chi può concorrere alla carica di presidente?
Aggirando il testo della Carta di transizione del Mali, l’attuale Capo dello Stato provvisorio, Assimi Goïta, sarebbe intenzionato a candidarsi alla carica di Presidente della Repubblica.
I membri dell’attuale governo, però, contestano questo dispositivo per due motivi.
Il primo concerne l’incostituzionalità della stessa Carta di transizione, che viola la Costituzione ufficiale del Mali, tuttora vigente. In particolare la Carta di transizione contravverrebbe all’articolo 121 della Costituzione della Repubblica del Mali varata nel 1992, secondo cui “il fondamento di ogni autorità nella Repubblica del Mali risiede nella Costituzione”, nonché all’articolo 26, il quale sancisce che la fonte della sovranità nazionale è il popolo, laddove la Carta di transizione non è stata approvata dai cittadini.
Inoltre la Carta di transizione ha la pretesa di porsi al di sopra della stessa Costituzione, ma questa non prevede la possibilità di dotarsi di strumenti giuridici che deroghino dalla Costituzione. La circostanza in virtù della quale la Carta di transizione è stata adottata con il consenso di una cerchia ristretta di individui, senza che essa fosse seguita da una consultazione popolare, sarebbe in contraddizione secondo il governo attuale, anche con l’articolo 26 della Costituzione, che sancisce che “la Costituzione deve essere rispettata in ogni circostanza”.
Pertanto, proprio in quanto incostituzionale, la Carta di transizione non avrebbe l’autorità per limitare i diritti dei cittadini del Mali, compresi quelli del colonnello Assimi Goïta. La Costituzione della Repubblica del Mali del 1992 non essendo stata (né potendo essere) abrogata dalla Carta di transizione, renderebbe nulle tutte le disposizioni contenute in questo documento in palese contraddizione con il testo costituzionale. Un argomento in virtù del quale i membri della giunta militare considerano incostituzionale, e quindi giuridicamente nulla, la limitazione del diritto di voto passivo del Capo dello Stato dell’attuale periodo di transizione.
Il secondo motivo in base al quale viene contestato l’articolo 9 della Carta di transizione ha invece a che fare con principi giuridici più generali, in base ai quali il futuro Capo dello Stato dovrebbe non solo essere dotato dei requisiti legali per assumere la carica, ma anche possedere la legittimità per esercitare il ruolo, volendo aderire al lessico di uno dei più grandi giuristi del XX secolo, il tedesco Carl Schmitt. Dovrebbe, in sostanza, essere provvisto del consenso effettivo della popolazione, o della maggioranza di essa. In questo momento, il colonnello Goïta è oggettivamente una delle poche figure di spicco della scena politica maliana e impedirgli di candidarsi comprometterebbe la legittimità, in senso schmittiano, delle future istituzioni del paese, in quanto l’articolo 9 della Carta di transizione impedirebbe al popolo del Mali di esercitare pienamente la propria sovranità nella scelta del Capo dello Stato. Pertanto l’incandidabilità del colonnello Assimi Goïta a presidente del Mali sarebbe illegittimo e illegale.
Gli altri contendenti
Assimi Goïta non è, però, l’unica figura popolare in Mali. L’esito della competizione elettorale dipenderà dal sostegno delle personalità politiche economiche e religiose della società maliana in grado di influenzare, per ragioni tribali o di clan, le scelte della popolazione, così come l’eventuale decisione di rinviare le elezioni fino a quando l’ordine sarà pienamente ripristinato.
Un personaggio molto popolare, ad esempio, è l’imam Mahmoud Dicko, un leader religioso di orientamento salafita che ha avuto un ruolo enorme nell’organizzazione delle proteste contro l’estromissione di Ibrahim Boubacar Keita, che aveva guidato il primo golpe nell’agosto dello scorso anno, e che ha promosso una consultazione sull’estensione del regime militare.
Gode di largo seguito anche il leader sufi Mohammad Maoulah Bouyé Haïdara, impegnato a organizzare marce e raduni a favore della proroga dell’attuale regime il più a lungo possibile.
Sarà interessante, a questo punto, verificare se effettivamente la giunta militare avrà la forza sufficiente, oltre agli argomenti, per determinare autonomamente la data delle elezioni sottraendosi alle pressioni. Ciò significherebbe che davvero, in quella parte di Africa, gli equilibri geopolitici sono mutati.
La situazione venutasi a creare in Mali dopo il recente colpo di stato militare testimonia la crisi dell’influenza francese in Africa. Un’ulteriore conferma è rappresentatoa dal recente intervento tenuto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dal primo ministro della nuova giunta militare Choguel Kokalla Maïga che ha ammesso che il suo paese è stato costretto a rivolgersi alla compagnia militare privata russa Wagner dopo il ritiro della Francia.
“L’annuncio unilaterale del ritiro dei militari dell’Operazione Barkhane ha rappresentato un tradimento dei legami che univano l’ONU, il Mali e la Francia nella lotta in prima linea contro quegli elementi impegnati a destabilizzare il paese”, ha dichiarato il premier maliano il 25 settembre, quinto giorno dell’Assemblea Generale dell’ONU. Di questa “nuova situazione” si è dovuto fare carico il nuovo governo che svilupperà tutto quanto necessario “per garantire il maggior livello di sicurezza possibile, in modo autonomo o con l’aiuto di altri partner, al fine di garantire alla popolazione un futuro migliore, che va raggiunto ad ogni costo”, ha aggiunto.
Nel frattempo, mercoledì 22 settembre si era svolta a Bamako, la capitale del Mali, una grossa manifestazione di piazza con migliaia di persone che protestavano contro l’interferenza francese negli affari interni del paese, proprio mentre più intensa si faceva la pressione internazionale nei confronti del nuovo leader militare, il colonnello Assimi Goïta, per dissuaderlo dal concludere l’accordo con il Gruppo Wagner.
Alla guida della folla c’era il noto panafricanista Kemi Seba con la richiesta di ritirare immediatamente le truppe francesi dal paese: “L’ultima fase della decolonizzazione è iniziata”, ha commentato su Twitter.
“Preferiamo i russi agli occidentali, ma preferiamo gli africani ai russi”, ha precisato poi Seba nel corso di una conferenza stampa a Bamako.
Il possibile arrivo dei russi in Mali era già stato anticipato a metà settembre dalla Reuters. La reazione del ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, e del ministro della Difesa tedesco, Annegret Kramp-Karrenbauer, non si era fatta attendere e i due avevano immediatamente definito l’ipotesi “inaccettabile”. Anche il capo della diplomazia europea, Sulla stessa lunghezza d’onda era intervenuto anche Josep Borrell, capo della diplomazia europea. Il 20 settembre, il ministro della Difesa francese, Florence Parly, si è recata a Bamako, minacciando di sospendere gli aiuti al Mali nella lotta al terrorismo nel caso in cui fossero arrivati i russi. Eppure, come hanno dimostrato le proteste di Hu e le dichiarazioni ufficiali della leadership maliana, tutti i tentativi europei sono caduti nel vuoto.
Al contrario, il nuovo governo del Mali ha risposto alle pressioni affermando categoricamente che non permetterà “A nessuno Stato straniero di intromettersi nelle proprie scelte e tantomeno di decidere con quali partner collaborare “.
L’insoddisfazione in Mali e nelle altre ex colonie nei confronti della Francia e del suo atteggiamento neocoloniale è in forte aumento negli ultimi mesi. I movimenti panafricanisti considerano Parigi il principale ostacolo allo sviluppo del continente: l’opinione pubblica locale accusa la Francia di estrarre illegalmente uranio e oro in Mali, di saccheggiare le risorse naturali africane e di imporre il franco CFA come strumento di signoraggio economico.
Accuse che in Italia non sono affatto sconosciute e dove, anzi, vari esponenti politici negli ultimi anni hanno messo in guardia su come l’atteggiamento transalpino nei confronti dell’Africa possa essere disastroso per l’Europa.
In particolare la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, è più volte intervenuta su questo tema affermando ripetutamente che la politica francese in Africa danneggia gli africani e la stessa Europa. In particolare, lo scorso marzo, intervenendo alla conferenza “L’Africa perduta. Instabilità, sfruttamento e interessi geopolitici in un continente dimenticato”, la Meloni ha sottolineato che:
“L’Africa, a differenza di quello che si pensa, è un continente ricchissimo di materie prime, nonostante sia il più povero del mondo. Ad esempio, società di proprietà dello Stato francese sono presenti in pianta stabile in Niger, dove sono concentrate gran parte delle riserve di uranio di tutto il pianeta. La multinazionale francese estrae uranio e lo porta in Patria per alimentare le centrali nucleari. Con l’uranio del Niger il governo di Parigi riesce a soddisfare un terzo del fabbisogno energetico nazionale e il 90% dei nigerini non ha nemmeno l’energia elettrica. In più, nei villaggi dove viene estratta questa preziosa risorsa, si beve acqua radioattiva e si coltiva su un terreno avvelenato dagli acidi”.
Secondo Giorgia Meloni, inoltre, “il saccheggio delle risorse africane non solo espropria i popoli della loro ricchezza ma causa ulteriore desertificazione, alimenta i conflitti tribali su cui si insinua come una serpe il fondamentalismo islamico, provoca i flussi migratori che non fanno bene né all’Africa né all’Europa”
In altre circostanze, la leader della destra italiana, aveva anche rimarcato come per gestire i flussi migratori “la soluzione non è prendere gli africani e spostarli in Europa ma liberare l’Africa da certi europei, come i francesi, che la sfruttano”.
Ma la Meloni non è l’unico esponente politico del nostro paese ad aver criticato l’approccio politico allo scenario africano nel recente passato. Nel 2019, per esempio, l’attuale titolare della Farnesina, Luigi Di Maio, affermò che l’Unione europea “dovrebbe sanzionare tutti quei paesi come la Francia che stanno impoverendo gli stati africani”
Matteo Salvini, da parte sua, nei mesi trascorsi al Viminale aveva evidenziato come tra le molte cause all’origine del problema migranti, un ruolo preminente lo avesse la circostanza che “c’e’ chi va in Africa non a creare sviluppo ma a sottrarre ricchezza a quei popoli e a quel continente. La Francia evidentemente è tra questi, l’Italia no”.
Anche in Africa centrale, in sostanza, Parigi si è mossa nell’ultimo decennio come un elefante in una cristalleria, producendo disordine, anarchia e diffidenza nelle popolazioni, con risultati disastrosi per l’Europa, come, peraltro, era già avvenuto in Libia, con gli effetti negativi che sono ancora sotto gli occhi di tutti. Il conseguente sgretolarsi dell’egemonia francese nella Françafrique sta aprendo le porte all’influenza non solo russa, ma anche cinese e turca, come dimostrano proprio i recenti avvenimenti in Mali. E da questi paesi dipenderà sempre più l’evoluzione del fianco meridionale europeo e la gestione dei flussi migrantori e delle molteplici tensioni sociali, economiche e politiche che attraversano il continente africano.
Sono sempre più evidenti gli effetti negativi della presenza francese in Africa. Non soltanto le ex colonie di Parigi continuano ad essere dipendenti economicamente e finanziariamente dalla Francia, ma, ciò che è più grave, questa mostra serie difficoltà a garantire la sicurezza nella regione.
Una serie di fatti recenti, ad esempio, dimostrano come esista un legame diretto tra le crescenti minacce terroristiche in Africa e l’aumento dei volumi del traffico di stupefacenti (cocaina, eroina, metanfetamine, ecc) diretto, attraverso il continente nero, in Europa.
I legami tra droga e jihad
La presenza di truppe straniere in Africa non è riuscita a ridurre il numero di cellule terroristiche e fondamentaliste: al contrario, negli ultimi tempi il numero di attacchi è considerevolmente aumentato, soprattutto nell’area del Sahel. Nonostante una presenza militare sempre più consistente di paesi europei (soprattutto Francia e Gran Bretagna), Stati Uniti e organizzazioni internazionali, le insurrezioni di marca jihadista aumentano e i gruppi islamisti si sono notevolmente rafforzati.
In virtù del suo passato coloniale, la Francia continua ad essere uno degli attori principali dello scenario africano, ma la sua capacità di influenza va attenuandosi con il trascorrere del tempo. Se prima la presenza militare di Parigi era percepita come un fattore di stabilizzazione del contesto, con effetti persino positivi per le popolazioni, oggi l’armée viene vista esclusivamente come un’odiosa forza di occupazione.
Lo stesso concetto di Françafriqueche un tempo legittimava l’egemonia francese in una logica di aiuto e protezione, è oggi al contrario sempre più inteso dall’opinione pubblica locale come un paradigma esclusivamente neo-coloniale. L’anarchia monta e con essa prosperano bande e cellule jihadiste sempre più incontrollabili.
Lo scorso 12 settembre in Mali dei banditi hanno aggredito impunemente alcuni camionisti marocchini mentre ad agosto un’organizzazione jihadista in Burkina Faso ha ucciso 47 persone (di cui 30 civili). Sono solo due esempi recenti, ma gli episodi analoghi si susseguono senza che le truppe straniere costituiscano un credibile deterrente.
In un contesto così instabile a prosperare non sono soltanto la violenza e il terrorismo, ma anche il business della droga. La condizione di arretratezza in cui versano le ex colonie francesi ha favorito il diffondersi della corruzione e del radicalismo, che trovano terreno fertile in un contesto con tassi altissimi di povertà e disoccupazione, dove i giovani quando non emigrano, finiscono facilmente per dedicarsi ad attività illegali e all’uso di sostanze stupefacenti. Allo stesso tempo è molto forte la contiguità tra gruppi terroristici e produttori di droga e narcotrafficanti.
Da tempo l’ONU ha lanciato l’allarme a proposito dell’aumento della produzione e del transito di sostanze illecite in Africa diretto verso l’Europa. Secondo gli esperti la situazione si è aggravata con la campagna militare francese del 2013, mentre i blocchi causati dalla pandemia di COVID-19 non hanno affatto ridotto l’attività dei trafficanti, che semmai l’hanno addirittura intensificata.
Le cifre del fenomeno
Secondo le statistiche delle Nazioni Unite, 275 milinioni di persone l’anno scorso hanno fatto uso di sostanze stupefacenti, il 22% in più rispetto al 2010.
Alcune zone dell’Africa oltre ad essere aree di transito, a causa dell’abbondanza del prodotto disponibile, stanno diventando anche aree di consumo di cocaina: una parte di questa passa attraverso l’Africa occidentale e la costa atlantica, il resto viaggia verso il Nord Africa diretto verso il Mediterraneo.
Le rotte proibite dell’Africa
Sebbene stia intensificando la propria capacità produttiva, l’Africa, come detto, continua ad essere soprattutto una zona di transito in cui viene stoccata la droga proveniente dal Sud America in attesa di essere trasferita verso l’Europa, dove risiede il grosso dei consumatori finali. Le sostanze principali (come la cocaina) provengono da Colombia, Bolivia e Perù attraverso i porti di Brasile, Venezuela ed Ecuador.
Una parte consistente della merce proveniente dall’America Latina arriva in Senegal, Guinea, Guinea-Bissau e Costa d’Avorio prima di giungere a Bamako, nel Mali, dove viene presa in carico dagli islamisti locali, che a loro volta la rivendono ai narcotrafficanti del posto.
Come è possibile evincere dalle mappe elaborate dagli esperti dell’ONU, nel 2020, rispetto all’anno precedente, importanti sequestri di droga sono stati effettuati in nuovi paesi, tra cui Nigeria, Camerun, Angola, Zimbabwe e altri, segno che il raggio d’azione dei trafficanti si va allargando a macchia d’olio, mentre Conakry, la capitale della Guinea, continua ad essere uno dei santuari del narcotraffico del continente.
Una delle principali rotte di transito attraverso cui gli stupefacenti dall’Africa giungono in Europa è quella che passa per la Libia (e per l’Egitto), completamente in preda al caos dopo la fine del regime del colonnello Gheddafi. La Libia è stata una zona di transito per la droga sin dagli anni ’90, ma dopo il 2011 questo business è letteralmente esploso, perfettamente inquadrato nelle lotte di potere tra fazioni e clan rivali. Anche qui, come nel Sahel, lo stato di anarchia politica ha favorito l’ascesa di gruppi criminali, che gestiscono i carichi di droga provenienti dall’Algeria meridionale e dal Niger e li spediscono in Europa.
Ma non è solo la cocaina sudamericana ad affluire in Libia attraverso il Mali, anche l’eroina afghana batte gli stessi percorsi, con le città di Sebha e Ubari divenute ormai grandi centri logistici dei contrabbandieri del deserto diretti verso le coste libiche, che altri narcotrafficanti preferiscono invece raggiungere via mare costeggiando il Marocco e l’Algeria.
Dove sono le organizzazioni internazionali?
Di fronte a questi dati è inevitabile chiedersi cosa facciano le organizzazioni internazionali e per quali motivi il loro peacebuilding risulti del tutto inefficace. Uno degli obiettivi espliciti del progetto MINUSMA delle Nazioni Unite, per esempio, era proprio quello di stroncare il narcotraffico africano. Ma come evidenziato dagli autori del rapporto sul traffico di stupefacenti in Mali di The Global Initiative.
MINUSMA si è rivelato un fallimento. Inoltre lo stesso personale dell’organizzazione è stato ripetutamente accusato di legami con criminali e militanti islamisti.
Il vero problema è la vastità di interessi incofessabili collegati al business del droga, che spesso coinvolge anche politici e uomini d’affari apparentemente puliti. Oltre al traffico illegale, al contrabbando e alle molteplici zone grigie, ci sono numerose aziende farmaceutiche senza scrupoli dell’UE che utilizzano questi prodotti. Il caos politico favorisce, inoltre, l’ingerenza, anche economica, delle vecchie potenze coloniali, senza contare che quella stessa anarchia è il brodo di coltura ideale per le formazioni islamiste, sia per aggregare seguaci, sia soprattutto per finanziarsi attraverso attività e commerci illeciti.
La questione europea
In Europa le principali rotte del traffico di stupefacenti passano attraverso la Spagna, il Portogallo, il Belgio e i Paesi Bassi da dove poi la merce viene distribuita in tutta l’Unione Europea. Società fittizie e grossi pusher si occupano o di consegnarla alle imprese farmaceutiche impegnate nella produzione di analgesici oppioidi o di venderla pura ai consumatori.
Gli Stati europei non sono in grado di risolvere il problema. Sono in troppi a beneficiare di questo sporco affare. D’altronde una parte rilevante del problema è rappresentata dall’approccio neocolonialista che paesi come Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti continuano ad avere nei confronti dell’Africa, depredando risorse e seminando conflitti e anarchia.
Nel giugno di quest’anno il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che le truppe francesi – circa 5.000 uomini- saranno ritirate dall’Africa e chiuse le basi militari nel Sahel. La decisione non sorprende: cresce nella regione un forte sentimento antifrancese, con un alto numero di proteste (in Senegal, Ciad, Mali, Niger, Mauritania ecc.) che chiedono il ritiro della missione militare.
Ordine e pace sono possibili in Africa soltanto se essa troverà partner disponibili a dialogare e ad operare su di un piano di parità e di reciprocità. Il continente cerca alternative e non è un caso se negli ultimi anni diversi Stati africani hanno avviato una forte cooperazione con la Cina (la “Nuova Via della Seta” assicura prestiti ed investimenti), la Russia (assistenza in funzione anti-jihadista, programmi energetici e di implementazione del settore agricolo) e altri. Le classi dirigenti africane dimostrano di essere consapevoli che solo uscendo dalla logica neocolonialista e sviluppando le proprie infrastrutture, potranno riprendere il controllo della situazione, attenuare disordine e illegalità, fornire una prospettiva diversa ai propri giovani, che non sia la tragica scelta tra povertà, violenza o emigrazione.
In ogni caso, il ritiro della Francia dall’Africa aprirà un vuoto che qualcuno cercherà di riempire. Se dovesse riempirlo la Turchia, che da tempo è coinvolta nel ricatto migratorio ai danni dell’Europa, sponsorizza i movimenti islamisti e tende a coprire il traffico di droga libico, i contraccolpi per i paesi del Vecchio Continente sarebbero tutt’altro che positivi.
Il recente colpo di stato in Guinea ad opera del tenente colonnello Mamady Doumbouyalo è la dimostrazione che la Francia sta perdendo la sua tradizionale influenza sulle sue ex colonie africane.
Il presidente Condé, deposto lo scorso 5 settembre, avrebbe potuto tranquillamente essere definito un “uomo della Francia”. Recatosi lì per ragioni di studio a soli 15 anni, aveva conseguito la laurea all’Università di Parigi, specializzandosi in sociologia e diritto pubblico, e aveva insegnato alla Sorbonne. Negli anni ’70 era stato accusato di aver infiltrato in Guinea un gruppo di agenti speciali armati allo scopo di effettuare azioni anti-governative con l’appoggio del Portogallo e per questo era stato condannato a morte in contumacia.
Tornato nel suo paese natale negli anni ’90, si era dato alla politica attiva, fondando un proprio partito politico, il Rassemblement du Peuple Guinée, con scarsi risultati in occasione delle elezioni del 1993 e del 1998.
La sua vicenda politica, in realtà, avrebbe potuto ispirare la trama di un film d’azione: un susseguirsi di ribellioni, proteste, arresti, culminato con il reclutamento di mercenari stranieri allo scopo di rovesciare il regime e l’inevitabile ritirata in Francia, dove sarebbe rimasto fino al 2005.
Solo nel 2010 Condé era riuscito finalmente a prendere il potere e diventare presidente, un presidente-monarca in realtà, ottenendo la rielezione nel 2015, anche grazie all’aiuto della società francese Bolloré Group e della sua controllata Havas.
Secondo un politico di orientamento panafricanista del Benin, Kemi Seba, il rovesciamento di Condé, “buon amico di Sarkozy e Soros”, va letto come un duro colpo ai danni della Françafrique (https://www.facebook.com/KemiSebaOfficial/posts/391717145656024).
In un post pubblicato sul suo profilo Facebook mercoledì scorso, Kemi Seba ha affermato: “Prego ardentemente (e mi impegno ogni giorno) affinchè tutti i tiranni della regione francofona dell’Africa cadano a uno a uno e con loro la Françafrique”.
Quanto fosse importante per la Francia Condé è testimoniato dall’ampia copertura accordatagli dai media transalpini, che ne seguivano con attenzione le vicende politiche, laddove quelli britannici si sono sempre limitati a trattare dello sviluppo economico legato alla produzione e al commercio di bauxite.
In realtà anche Doumbouyalo, il leader dei golpisti e capo delle forze speciali guineano, è un ex legionario francese rientrato nel suo paese appena tre anni fa, di cui sono subito emersi gli ottimi legami con gli Stati Uniti d’America. Ma il tema vero su cui è utile riflettere è, più in generale l’incapacità che la Francia sta dimostrando a mantenere l’ordine e il controllo nelle sue ex colonie africane.
Sebbene molto vicino alla Francia, Condé aveva ritenuto indispensabile rafforzare la cooperazione economica con altri paesi: aveva creato stretti legami con la Turchia, corroborati da una salda amicizia personale con Erdogan, al punto che Soner Yalçın, commentando i recenti eventi in Guinea sulle colonne di Sözcü (https://www.sozcu.com.tr/2021/yazarlar/soner-yalcin/erdoganin-kardesine-darbe-6634475/), non ha esitato a definirli “un golpe contro il fratello di Erdogan”. Altri accordi assai redditizi erano stati conclusi soprattutto con la Cina (per un giro d’affari da 3 miliardi di dollari l’anno) e con la compagnia russa UC Rusal.
La strategia del presidente si dispiegava su due assi paralleli: da un lato mantenere uno stretto rapporto politico con Parigi, dall’altro esplorare nuove partnership basate principalmente sull’interesse economico.
La necessità di perseguire una simile politica del “doppio binario” testimoniava già di per sé il declino del sistema della Françafrique. A riprova di ciò ci sono le difficoltà incontrate da Bolloré, grande eminenza grigia della Françafrique insieme ai suoi subordinati di Havas, nel far eleggere negli ultimi anni i suoi candidati e i recenti rivolgimenti verificatisi nel Mali e nella Repubblica Centrafricana. Insomma, nuovi attori vanno progressivamente sostituendosi a Parigi nella regione.
Nonostante i legami tessuti con Cina, Turchia e Russia, Condé restava un uomo cresciuto e formatosi in Francia e le sue logiche di potere si intrecciavano con gli interessi geopolitici francesi. Lo stesso parziale discostamento da questi, non certificava altro che la sua necessità di individuare nuovi interlocutori alla luce delle difficoltà di Parigi a proteggere (e controllare) i suoi vassalli. Come si comporterà adesso Doumbouyalo è un enigma tutto da scoprire.
Turchia, Cina e Russia sono, invece, i nuovi protagonisti delle vicende dell’Africa occidentale e centrale un tempo francese. Ma mentre la crescente influenza di Pechino e Mosca non assume contorni particolarmente pericolosi per l’Europa, l’espansione del raggio d’azione turco suscita preoccupazioni: Ankara sta perseguendo una sua politica neo-coloniale fondata essenzialmente sul soft power, nel caso specifico esercitato attraverso l’islamizzazione della popolazione africana in modo da renderla compatibile con una logica imperiale neo-ottomana (il Diyanetİşleri Başkanlığı) e funzionale, al tempo stesso, al ricatto migratorio con cui la Turchia sollecita l’UE ogni volta che necessita di qualcosa.
Ma se la situazione precipitasse ed Erdogan desse seguito alle sue minacce, scatenando i flussi lungo la rotta del Mediterraneo centrale, l’Italia sarebbe in grado di sopravvivere a una nuova crisi migratoria?
Hanno preso il via oggi, 2 giugno, i lavori del St. Petersburg International Economic Forum (SPIEF). Prenderanno parte alla convention oltre 5.000 persone, che, considerando il contesto pandemico in cui si celebra, si presenta come uno dei più grandi eventi internazionali degli ultimi anni, soprattutto se lo si confronta con il World Economic Forum di Davos che quest’anno si è tenuto in formato online, mentre la riunione speciale del WEF, prevista dal 17 al 20 agosto a Singapore, è stata annullata lo scorso 17 maggio proprio a causa del Covid.
Il fatto che la Russia sia riuscita ad organizzare un simile evento offline, dimostra come questo paese sia riuscito a reagire al coronavirus più efficacemente rispetto ad altre potenze mondiali. Ma non si tratta dell’unico elemento che giustifica una messa a confronto tra SPIEF e WEF.
Il WEF è una piattaforma di ispirazione globalista molto apprezzata dai potenti di tutto il mondo che fanno a gara per parteciparvi. Lo stesso progetto “Great Reset” lanciato dal fondatore del WEF Klaus Schwab si presenta come l’agenda cui si uniformeranno le élite globaliste nei prossimi decenni. Lo SPIEF, invece, si configura come una realtà profondamente diversa: si tratta, infatti, di una piattaforma di dialogo promossa da uno Stato sovrano (la Federazione Russa) che non nasconde l’intenzione di agire a difesa dei propri interessi nazionali. Anche per questo, sin dalla prima edizione tenutasi nel 2014, l’Occidente ha tendenzialmente snobbato il Forum di San Pietroburgo.
Ciononostante esso ha catturato, da subito, l’interesse di quelle realtà imprenditoriali non condizionate da cliché ideologici e che vedono nella Russia una realtà significativa nel contesto globale e un partner redditizio. Il paese occupa una posizione chiave nello spazio eurasiatico ed attira, inevitabilmente, l’attenzione di tanti uomini d’affari non solo europei ed asiatici, ma anche americani, o almeno di coloro che non subiscono il fascino dei giochi dei politici volti a intraprendere una nuova stagione di Guerra Fredda.
Non a caso la maggior parte dei partecipanti proviene, come sempre, proprio dagli Stati Uniti. La delegazione del Qatar, uno dei paesi più ricchi del Golfo Persico, è composta da ben duecento persone; tra gli ospiti provenienti da tutto il mondo, molti arrivano da Cina, Germania, Regno Unito, Francia e Italia. Venerdì è previsto l’intervento del presidente russo Vladimir Putin.
Il titolo dell’edizione di quest’anno recita: “Di nuovo insieme. L’economia della nuova realtà”. Si discuterà, ovviamente, dell’impatto della crisi pandemica sulla situazione mondiale. I vari tavoli di discussione e le sessioni di dibattito si focalizzeranno, però, su altre questioni più interessanti. L’influenza dei teorici del “Great Reset” è in ogni caso evidente: le tematiche ambientali e lo sviluppo di politiche volte alla riduzione delle emissioni di carbonio per fronteggiare il surriscaldamento del clima saranno all’ordine del giorno. Ci saranno, però, ben tre focus dedicati al principio di sovranità, in cui verranno approfondite le seguenti questioni: “Sovranità storica e sviluppo economico”, Difesa dello spazio digitale unico vs. lotta per la sovranità digitale”, “Sovranità digitale e Cybersecurity”.
Discutere su tematiche del genere al World Economic Forum sarebbe semplicemente impossibile e questo significa che il Forum russo si propone come una reale alternativa al paradigma elaborato dalle élites globaliste. Sarebbe auspicabile che non solo in Russia, ma anche in Europa il tema della sovranità potesse essere messo in relazione alle prospettive di rilancio economico.
Dunque lo SPIEF si pone come modello non solo alternativo, ma anche replicabile altrove ed è significativo che il presidente del World Economic Forum in persona, Borge Brende, abbia confermato la propria presenza a San Pietroburgo: vuol dire che i teorici del globalismo prendono questa piattaforma molto sul serio.