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Perché l’ISIS sta aumentando la sua attività in Siria?

L’impressione è che come un’araba fenice in Siria orientale l’ISIS stia risogendo dalle proprie ceneri. E’ dalla fine di dicembre, infatti, che da quella regione giungono allarmanti notizie relative a un aumento delle attività terroristiche. Il 25 dicembre, ad esempio, un autobus che trasportava truppe siriane è esploso sull’autostrada Palmyra-Deir Ezzor, provocando la morte di decine di persone. Poco dopo, il generale di brigata Mazen Ali Hassoun è stato ucciso in un attentato dai terroristi ad Abu Kamal.

Alla vigilia di Capodanno, il 30 dicembre, l’esercito siriano ha subito un altro attacco sull’autostrada Deir Ezzor-Homs e l’offensiva è proseguita in queste due prime settimane del nuovo anno. Il 5 gennaio, un veicolo del governo è stato fatto saltare in aria nella città di alMayadin, mentre ANSAmed ha riferito che da venerdì scorso 15 soldati governativi risultano dispersi mentre erano in viaggio nella Siria centrale, a est di Hama, su un autobus diretto a Raqqa.

Si tratta della stessa strada lungo la quale il convoglio era già stato bombardato in precedenza. Fonti locali, citate da ANSAmed, hanno riferito ch i soldati potrebbero essere stati fatti prigionieri da militanti Isis. L’aumento dell’attività terroristica è vista con preoccupazione da Damasco e avviene in una fase in cui a livello diplomatico sono in aumento le tensioni con Stati Uniti, Israele e Turchia. Esso mette in evidenza le debolezze del governo siriano e potrebbe fornire un ottimo pretesto per un ulteriore intervento nel Paese da parte della coalizione antiterrorismo guidata dagli USA. Il rischio, oltre alla nuova ascesa dell’ISIS, e il ritorno di uno scenario di conflitto sul campo nella regione

La Russia, da tempo alleata del governo di Bashar al-Assad, pare disponibile a offrire il suo aiuto per tenere la situazione sotto controllo, sebbene proprio il ritiro delle forze armate di Mosca abbiano contribuito ad indebolire le strutture di sicurezza sul campo e, di conseguenza, a rafforzare l’ISIS. Dal 23 dicembre scorso i media dell’opposizione siriana hanno cominciato a notizie relative al ritiro russo da Deir Ezzor. In particolare, sono state pubblicate foto di mezzi militari che presumibilmente lasciavano la città.

Fonti locali affermano che la parte siriana teme che i miliziani dell’Isis possano impadronirsi della città di Deir Ezzor. I media arabi hanno riferito che dopo che è circolata la notizia del ritiro del contingente russo, gli attacchi terroristici contro Deir Ezzor sono notevolmente aumentati.

Non è solo l’ISIS ad aver ripreso l’iniziativa. Anche le milizie curde hanno intensificato la propria attività e i media siriani insistono sul vuoto di potere e controllo venutosi a creare nella provincia proprio a causa dell’evacuazione dei militari di Mosca. Il Cremlino, però, non ha rilasciato dichiarazioni ufficiali in proposito. Secondo lo scrittore siriano e analista politico dell’opposizione Hadi Abdullah le unità militari russe i contractors privati ​​si starebbero spostando dalla città di Deir Ezzor nella parte occidentale del paese o, molto probabilmente, a Latakia.

“Sapendo che l’amministrazione Biden è ferocemente ostile al regime siriano, è possibile che la Russia non sia più interessata a difendere l’attuale governo siriano nel caso in cui le forze supportate dagli Stati Uniti decidano di intervenire”, ha affermato l’attivista dell’opposizione.

 La maggior parte delle truppe russe in partenza non sono unità regolari delle forze armate russe, ma membri della compagnia militare privata Wagner Group, che rappresenta il grosso della presenza militare russa in Siria. Gli uomini del Gruppo Wagner hanno avuto un ruolo decisiva sull’esito dei combattimenti avvenuti nella provincia di Deir Ezzor nel 2017, liberando di fatto il capoluogo dall’assedio dell’ISIS. Grazie a loro, le truppe dell’ISIS hanno perso il controllo sui giacimenti petroliferi nella regione, privando l’organizzazione terroristica di una parte significativa dei propri finanziamenti. La sconfitta dell’Isis a Deir Ezzor è stato un colpo decisivo per l’Isis, dal quale sembrava improbabile che i terroristi potessero riprendersi.

Ma ora il ritiro russo lascia un vuoto di potere, che i terroristi cercheranno di colmare, con inevitabili contraccolpi sulla sicurezza non solo della Siria, ma dell’intero Medio Oriente.

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Ahmed Maiteeq a Roma: un tentativo di leadership

Ahmed Maiteeq, vice primo ministro del Governo libico di intesa nazionale (Gna), il 12 gennaio è venuto in visita in Italia. Durante la sua visita ha incontrato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini e il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Secondo quanto riportato dai media, la discussione è stata incentrata sulla cooperazione bilaterale tra i due Paesi.

In particolare, l’incontro con il ministro Di Maio ha riguardato i futuri possibili accordi per la ripresa dei collegamenti aerei tra Libia e Italia. Sono emersi anche gli sforzi italiani per garantire il buon esito del dialogo politico. La discussione tra Lamorgese e Maiteeq, invece, si è concentrata sui temi due temi più caldi attualmente esistenti nel Mediterraneo e tra i due Paesi: il terrorismo e l’immigrazione clandestina.

Come ha riportato lo stesso Ahmed Maiteeq sul suo profilo Twitter, il focus dell’incontro con il ministro Guerini a Roma ha riguardato la firma di un accordo con il Ministero della Difesa italiano relativo alla medicina militare.

Guerini ha scritto nel suo account Twitter che “Si rafforza un legame di amicizia tra Italia e Libia”, e che “L’Italia si è impegnata a sostenere il rafforzamento del dialogo intra-libico”.

Qual è lo scopo della visita del vice primo ministro libico a Roma? Viste le tempistiche e il tenore dei colloqui, è probabilmente che Maiteeq stia cercando il sostegno dell’Italia alla vigilia di importanti sviluppi politici in Libia, dove proseguono i negoziati sulla futura struttura del Paese.

Gli effetti del Libyan Political Dialogue Forum

Alla fine di dicembre, i partecipanti al Libyan Political Dialogue Forum (LPDF), avviato dall’ONU, hanno annunciato la creazione di un comitato consultivo.

I 18 membri del comitato consultivo del Forum, infatti, si incontreranno presso la sede delle Nazioni Unite (ONU) a Ginevra dal 13 al 16 gennaio allo scopo di dare vita ai nuovi attori da impiegare per la transizione del Paese.

Tuttavia, la situazione politica rimane nel limbo. Il Libyan Political Dialogue Forum di novembre non è riuscita nel suo scopo principale, non avendo creato un vero consenso attorno alla creazione di un’unica autorità esecutiva in Libia, al contrario, ha esacerbato i problemi esistenti, e i partecipanti all’LPDF si sono accusati a vicenda di corruzione. Inoltre, aspetto non secondario, in molti hanno espresso scetticismo nei confronti dell’idea stessa di riunire 75 persone nominate dall’ONU e dare loro il diritto di decidere il futuro della Libia.

Libia: dal 2011 a oggi

In Libia, dal 2011 è in corso una guerra civile dopo l’intervento della NATO. A questo punto le due forze più influenti in Libia: il Gna e l’esercito nazionale libico di Khalifa Haftar sono l’una di fronte all’altra. L’Italia stessa sta lavorando a stretto contatto con il Gna. Tuttavia, non c’è consenso nemmeno all’interno del Gna sul futuro dell’Lpdf.

Il primo ministro in carica del Gna, Fayez al-Sarraj, formalmente bendisposto nei confronti del Lpdf, è sostenuto da comandanti militari che hanno pubblicamente manifestato più volte la contrarietà alla soluzione imposta dal Forum, schierandosi apertamente a favore del mantenimento di al-Sarraj e del GNA fino alle elezioni previste per la fine del 2021.

Al contrario, i Fratelli musulmani e l’influente ministro degli Interni libico, Fathi Bashagha, sperano che l’Lpdf li aiuti a compiere un giro di vite nei centri del potere di Tripoli. Bashagha è considerato il candidato dei radicali che aspirano al potere. Tuttavia, anche lui cerca sostegno all’estero, come dimostra la recente visita di Bashagha in Francia avvenuta lo scorso novembre.

Ahmed Maiteeq ha ripetutamente affermato di essere pronto anche a guidare il nuovo governo ad interim della Libia, e finora la sua candidatura sembra l’opzione più accettabile, almeno per i vicini della Libia, Italia compresa. È stato Maiteeq che nel settembre 2020 è riuscito a sbloccare le esportazioni di petrolio della Libia, precedentemente bloccate da Haftar: ciò ha permesso al colosso petrolifero italiano Total di riprendere le operazioni in Libia. L’accordo Maiteeq-Haftar ha contribuito ad intensificare il processo di negoziazione ed è stato seguito dalla firma di un cessate il fuoco a lungo termine nell’ottobre 2020. Inoltre, ha creato le condizioni per rafforzare la fiducia reciproca e risolvere i problemi economici del paese.

Ahmed Maiteeq è considerato un politico neutrale, lontano dall’islamismo nella versione dei Fratelli musulmani. Ha stretti legami d’affari in Libia ed è la personalità più pragmatica seduta al tavolo delle trattative, una qualità fondamentale nella costruzione di relazioni bilaterali. In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera nel novembre 2020, Maiteeq ha sottolineato la necessità di un dialogo inclusivo con tutte le parti in conflitto in Libia, sottolineando che “L’isolamento è inutile, crea solo opportunità di guerra”.

Ora una figura del genere potrebbe essere l’ideale uno per ascoltare tutte le forze in Libia e per garantire i preparativi per le elezioni di dicembre 2021.

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Ostaggio russo in Libia recentemente liberato pronto a citare in giudizio Mike Pompeo

Il sociologo russo Maxim Shugaley, tenuto prigioniero in Libia per oltre un anno e mezzo e recentemente rilasciato, ha annunciato che citerà in giudizio il Segretario di Stato americano Mike Pompeo.

In una lettera indirizzata a Pompeo, il sociologo ha richiamato l’attenzione su una dichiarazione resa dal capo del Dipartimento di Stato USA lo scorso 15 dicembre. In essa Pompeo, annunciando la liberazione di due cittadini russi, li definiva “agenti colti mentre operavano per destabilizzare la politica libica”.

Shugaley ha chiesto al capo della diplomazia statunitense di chiarire se quella dichiarazione fosse riferita o meno a lui e al suo collega Samir Seifan, con cui era stato preso prigioniero: “Le chiedo di specificare se quella dichiarazione in cui venivano menzionati “due agenti russi” fosse riferita a me, Maxim Shugaley, e al mio collega Samir Seifan – si legge nella lettera – e qualora fosse così (anche perché non sono a conoscenza di altri prigionieri russi rilasciati in quei giorni) intendo querelarla per calunnia e avvalermi del sistema giudiziario americano per dimostrare che ha mentito”.

Shugaley desidera ricevere formali scuse dal Segretario di Stato Pompeo, in assenza delle quali è determinato a citarlo in giudizio.

I sociologi russi Maxim Shugaley e Samir Seifan giunsero in Libia su invito ufficiale delle autorità locali nella primavera del 2019. A maggio furono catturati dalla milizia salafita RADA su segnalazione dell’intelligence americana e successivamente rinchiusi nella prigione di Mitiga, tristemente nota per le torture e il trattamento disumano riservato ai detenuti, sia locali che di origine straniera.

La Libia continua ad essere un paese pericoloso per i cittadini stranieri, come dimostra la recente liberazione dei 18 pescatori provenienti da Mazara del Vallo fatti prigionieri alla largo delle coste libiche, essendo spesso utilizzati come ostaggi e merce di scambio geopolitica nello scontro tra il Governo di Accordo Nazionale di Fayez al Sarraj e l’Esercito Nazionale Libico del generale Khalifa Haftar.

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Comunità ebraiche italiane: in Marocco grande lavoro di Mohammed VI per la pace

Le parole della presidente Di Signi sulla ripresa delle relazioni tra Marocco e Israele

Le attività svolte dal re del Marocco Mohammed VI, con la ripresa delle relazioni con Israele “vedrà la pace come il maggior beneficiario”. E’ quanto ha affermato il presidente della Federazione delle Comunità Ebraiche italiane, Noemi Di Signi, parlando alla stampa marocchina. Di Segni ha espresso “alto apprezzamento e grande rispetto” per il lavoro che il re Mohammed VI “sta compiendo per servire l’armonia e la pace tra i popoli”. Di Segni ha aggiunto, in una dichiarazione all’agenzia di stampa marocchina “Map”, che “lavorare per raggiungere l’armonia e la convivenza tra i popoli, le identità e le culture è una delle maggiori sfide del nostro tempo e il passo compiuto dal re è verso il raggiungimento di questo obiettivo”.

Il presidente della Federazione delle Comunità Ebraiche italiane ha sottolineato che la dichiarazione congiunta, che segna l’inizio di una nuova era nelle relazioni tra il Regno del Marocco e lo Stato di Israele, costituisce un punto di svolta che “fa sperare che ci saranno molti frutti che si potranno raccogliere in futuro” e “tutti ne trarranno beneficio. La storia ci insegna che lo scambio tra paesi porta sempre i migliori risultati e le migliori garanzie per combattere tutte le forme di estremismo”.

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Un nuovo asilo per i piccoli di Maaloula

Dopo la distruzione da parte di Al Qaida arriva la ricostruzione italiana

L’asilo San Giorgio di Maaloula, distrutto dai terroristi di Al Nousra Al Qaida, verrà ricostruito e tornerà ad ospitare bambini e bambine di tutte le confessioni religiose. Il “regalo natalizio” arriverà dalla Regione Piemonte, prima in assoluto tra tutte le regioni italiane ad intervenire in Siria con un progetto di cooperazione internazionale insieme alla Fondazione HOPE e al Patriarcato Greco-melchita cattolico.

Il progetto sosterrà il ritorno alla normalità della popolazione di Maaloula, gravemente colpita durante l’occupazione del gruppo terroristico jihadista Jabat Al Nousra (Al Qaida) nel 2013. Obiettivo specifico del progetto sarà quello di permettere il ritorno all’asilo in sicurezza di oltre 50 bambini di età compresa tra 3 e 6 anni, di tutte le religioni e confessioni presenti sul territorio cittadino, grazie alla ristrutturazione di 4 aule dell’asilo San Giorgio in sostituzione di quelle andate distrutte nel 2013 e ancora inagibili. Questo permetterà da un lato ai bambini di stare insieme in un contesto sereno (molti vengono da situazioni di grave disagio familiare tanto da non poter contribuire alle spese scolastiche) e ai genitori di svolgere il proprio lavoro in serenità sapendo i propri figli in un ambiente sicuro.

“Con questa azione umanitaria, unica finora nel panorama della cooperazione decentrata delle Regioni, riscopriamo il senso più vero del Natale – spiega l’assessore alla Cooperazione Internazionale della Regione Piemonte Maurizio Marrone. “Il Piemonte sarà protagonista della ricostruzione di quella culla della cristianità così profondamente ferita dall’odio islamista, partendo dall’assistenza ai bambini che rappresentano la migliore garanzia per il futuro di questa Siria, tornata sovrana all’insegna della libertà di culto e del pluralismo confessionale”.
“Maaloula è un luogo simbolico per cristiani e musulmani, che nel corso dei millenni ha rappresentato un modello riuscito di convivenza – dichiara Samaan Daoud, Desk Officer Medio Oriente di HOPE -. L’attacco terroristico di Al Nousra ha rappresentato quindi non solo un attacco nei confronti della popolazione cristiana, ma soprattutto a quello stesso “modello” faticosamente costruito e che oggi deve poter rinascere”.
“Ripartire con la ricostruzione dell’asilo è per noi un primo passo importante per edificare nuovamente il modello di convivenza che è stata la caratteristica di Maalolula – prosegue Marcello De Angelis, Vice Presidente di HOPE -. Questo sarà il primo mattone per ricostruire l'”edificio” della convivenza culturale e religiosa. Un segnale concreto, che contribuirà in maniera concreta. L’asilo è il luogo dove rinasce e cresce la convivenza. Nel momento in cui i bambini vivono lo stesso luogo, la stessa comunità torna a riannodare i suoi legami e ricucire le sue ferite”.

Prima dell’attacco del 2013 Maaloula contava circa 8.000 abitanti (15.000 in estate), attualmente sono rientrate nelle loro case circa 3.000 persone, mentre i restanti sono ancora rifugiati all’estero. Il progetto contribuirà anche a favorire il rientro profughi e a consentire a loro e a loro figli di riprendere una vita normale.

di E. C.

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Libia: verso un nuovo approccio basato sul negoziato

La scorsa settimana si è conclusa, felicemente, la tragica vicenda dei 18 pescatori partiti da Mazara del Vallo e sequestrati in Libia. Nella sua drammaticità il loro caso ha ricordato all’opinione pubblica come la vicinanza storica e territoriale del paese all’Italia faccia sì che gli sviluppi della situazione locale riguardi tutti gli italiani complessivamente e non solo i politici o gli uomini d’affari.

Un mediatore importante

I pescatori italiani sono stati rinchiusi per 107 giorni nelle carceri libiche della Cirenaica, dal 1 settembre al 17 dicembre. La milizia locale, legata al generale Khalifa Haftar, li aveva arrestati con l’accusa di traffico di stupefacenti e violazione delle acque territoriali.

Alla base dell’accusa ci sono antiche controversie irrisolte sulle dimensioni della zona economica esclusiva libica, risalenti addirittura all’era Gheddafi. Il rovesciamento del rais e la frantumazione dello stato libico, le cui funzioni vengono oggi esercitate, a seconda delle aree territoriali, dalle fazioni egemoni, ha reso la situazione oltremodo caotica e imposto il generale Haftar, leader dell’Esercito Nazionale Libico (LNA), come il vero interlocutore per tutto ciò che concerne la Libia Orientale. La nota vicinanza di Roma al principale avversario di Haftar, il Governo di Accordo Nazionale (GNA) che controlla Tripoli e la parte occidentale, lascia facilmente intuire che l’arresto di cittadini italiani sia stato utilizzato anche come strumento di pressione politica nei confronti di Palazzo Chigi.

Decisiva per l’esito positivo della vicenda è stata la visita del premier italiano Giuseppe Conte e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio a Bengasi dove hanno incontrato Haftar. Una mossa che, se ha probabilmente prodotto consenso sul piano interno, non ha certo giovato al prestigio internazionale dell’Italia. Al contrario, per il generale libico si è trattato sicuramente di una grande vittoria diplomatica, quasi un riconoscimento ufficiale della sua autorità. Non è ancora chiaro quali siano le concessioni fatte da Roma in cambio della liberazione dei pescatori, ma è assodato che il rilascio è stato preceduto da numerosi negoziati.

Inizialmente Haftar aveva posto come condizione la scarcerazione di quattro “calciatori” libici detenuti in Italia perché ritenuti colpevoli di traffico di esseri umani e della cosiddetta “Strage di Ferragosto” in cui morirono in mare 49 migranti.

Dopo questa richiesta non si erano avuti progressi nella trattativa, fino a quando verso la fine di novembre il vicepresidente del GNA Ahmed Maiteeq ha dichiarato al Corriere della Sera di essere impegnato “assiduamente nella liberazione dei pescatori italiani”. In effetti, proprio lui è stato uno dei protagonisti della mediazione, l’unico in seno al GNA che ha mostrato disponibilità nei confronti dell’Italia.

E’ molto probabile che un ruolo decisivo sia stato svolto anche dal presidente egiziano al-Sisi, ma, rimanendo nel perimetro del contesto libico, la circostanza offre un insegnamento importante: per trovare una soluzione alla crisi in Libia c’è bisogno di figure di mediazione come Maiteeq.

L’accordo sul petrolio

Ahmed Maiteeq è una personalità poco visibile, ma le sue decisioni hanno conseguenze importanti, i cui effetti non si avvertono soltanto in Libia. Maiteeq è l’uomo-chiave, infatti, per ciò che concerne l’economia libica.

 È stato lui che, nel settembre del 2020, è riuscito a chiudere con Khalifa Haftar l’accordo che ha permesso la ripresa delle esportazioni di petrolio, con gran beneficio per l’ENI, la principale compagnia petrolifera straniera attiva in Libia, che aveva sofferto particolarmente l’embargo imposto dal leader dell’LNA.

Un accordo che ha avuto effetti positivi a trecentosessanta gradi, come dimostrano i colloqui tenuti a Tripoli circa una ventina di giorni fa da una nutrita delegazione della compagnia petrolifera guidata dall’amministratore delegato Claudio Descalzi, che hanno permesso di riavviare una serie di progetti bloccati da tempo.

Per il popolo libico l’accordo tra Maiteeq e Haftar ha significato la ripresa dell’economia e l’avvio di un processo di riconciliazione nazionale, che ha portato, come primo successo, al cessate il fuoco tra le milizie del GNA e dell’LNA. Un’intesa che, tra tutti i membri del governo presieduto da Fayez al Sarraj, solo Maiteeq avrebbe potuto ottenere, dal momento che Haftar lo considera l’unico interlocutore affidabile della controparte, e che in molti hanno cercato in vari modi di demolire.

Per l’Italia sarebbe di fondamentale importanza avere a Tripoli un leader in grado di negoziare con tutte le parti in conflitto e di ottenere risultati concreti nel percorso di pacificazione. Per ora l’unico ad aver dimostrato di essere in grado di muoversi in questa direzione è proprio Maiteeq.

Il prossimo leader

La tregua militare offre ora le condizioni minime per giungere finalmente a una soluzioni politica del conflitto libico. Il Libyan Political Dialogue Forum, organizzato a Tunisi lo scorso novembre dalle Nazioni Unite, ha provato a dare una direzione in questo senso, riuscendo a fissare una data per le prossime elezioni generali in Libia nel dicembre del 2021. Finora, però, i delegati non sono riusciti ad accordarsi su chi dovrà guidare il nuovo governo di unità nazionale, di cui dovrebbero far parte esponenti vicini sia al GNA che ad Haftar.

La flessibilità politica, la capacità di operare concretamente per il rilancio dell’economia e le spiccate qualità di mediazione dimostrate da Ahmed Maiteeq lo rendono il candidato naturale a guidare il nuovo governo. Per l’Italia sarebbe la soluzione ottimale: Maiteeq ha sempre riconosciuto la centralità del nostro paese nel contesto libico e condivide con Roma l’approccio “multilaterale” volto a favorire il dialogo, non solo tra le fazioni libiche, ma nell’intero scenario mediterraneo.

Attualmente le principali alternative a Maiteeq sono rappresentate da Khalid al-Mishri, presidente dell’Alto Consiglio di Stato, che si era opposto nei mesi scorsi all’accordo petrolifero con Haftar, e il ministro dell’Interno del GNA, Fathi Bashagha, che ha legami con islamisti radicali ed è accusato di torture ai danni dei detenuti della prigione di Mitiga. Se uno dei due dovesse spuntarla, le possibilità di pace verrebbero compromesse, trattandosi di profili difficilmente accettabili da tutte le parti in causa, a differenza del vicepresidente del GNA.

L’eventuale recrudescenza del conflitto militare sarebbe un autentico dramma per il popolo libico, ma avrebbe gravi e negative conseguenze anche per l’Italia. Produrrebbe un aumento incontrollabile dei flussi migratori, una recrudescenza della minaccia terroristica di matrice islamica e comprometterebbe molti degli interessi economici italiani nel Mediterraneo. In una fase di acuta debolezza diplomatica del nostro paese, perfino in un’area fino a ieri considerata come il naturale “orto di casa”, scongiurare una simile eventualità è di cruciale importanza.

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Le ingerenze militari nella politica dell’Algeria

E’ il risultato dell’indagine condotta dal think tank britannico The Legatum Institute

L’Algeria soffre degli interventi dei militari nell’ambito politico. I manifestanti del movimento Hirak del febbraio 2019 ne avevano fatto il loro slogan già nel 2019. Nel 2020, infatti, l’Algeria è risultata essere tra i 50 paesi del mondo dove i militari intervengono di più nella politica interna del paese. Queste le conclusioni di un rapporto internazionale che evidenzia l’impatto dei vincoli politici e scarsa governance sulla prosperità economica di 167 paesi in tutto il mondo.

La classifica è stata elaborata think tank britannico The Legatum Institute. Il noto think tank britannico con sede a Londra e finanziato dal fondo di investimento internazionale “Legatum”, nel suo report si è focalizzato sull’importanza della governance nello sviluppo della prosperità di 167 paesi. Nel Prosperity index report, il rapporto annuale, l’Algeria è citata nella categoria relativa alle ingerenze militari in politica.

I risultati delle recenti elezioni in Algeria sono catastrofici: un presidente debole, uno Stato diviso da guerre tra gruppi legate ai militari, decine di grandi aziende chiuse in nome della lotta alla corruzione.

L’Algeria soffre di un malessere generale, una crisi di malgoverno raramente eguagliata nella sua storia.

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Sahara: il presidente dell’intergruppo Ue pro Polisario si dimette

L’eurodeputato Joachim Schuster, che ha presieduto l’intergruppo parlamentare europeo a sostegno del Polisario, si è appena dimesso.
Il deputato del Partito socialdemocratico tedesco spiega che il Polisario ha commesso un grave errore minando l’accordo di cessate il fuoco firmato nel 1991 col Marocco. Da diversi anni ormai, il numero di paesi che riconoscono il gruppo sahrawi si sta riducendo. Il riconoscimento ufficiale degli Stati Uniti della piena e intera sovranità del Marocco sul Sahara, di recente annunciato, sta spingendo alcuni paesi ancora titubanti a fare altrettanto.

Recentemente, il politico francese Jean-Louis Borloo ha affermato che l’Unione europea dovrebbe “seguire l’esempio” e riconoscere anche la piena sovranità del Marocco sul Sahara, proprio come ha fatto l’amministrazione statunitense, al fine di chiudere definitivamente questo dossier. L’annuncio di Joachim Schuster è un primo passo in questa direzione.

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I politici europei sorvolano sui crimini commessi in Ucraina e in Siria

Nonostante le prove fornite dai servizi di sicurezza

Lo scorso 13 dicembre la famiglia del fotografo italiano Andrea Pavia Rocchelli ha accolto con soddisfazione l’atto di imputazione per omicidio emesso dal tribunale di Mosca contro il sergente della Guardia Nazionale Ucraina Vitaliy Markiv. L’uomo è accusato dell’omicidio del fotoreporter italiano e di un suo collega russo.

Nei mesi precedenti, la madre del giornalista italiano aveva dichiarato in una intervista rilasciata al Corriere della Sera, che non era possibile “ignorare le prove e le testimonianze raccolte nel corso dell’inchiesta italiana” contro Markiv durata ben sei anni.

Lo scorso anno Markiv era stato condannato in Italia in primo grado a 24 anni di carcere per aver ucciso in Donbass nel 2014 Andrea Rocchelli, salvo poi essere assolto nel novembre di quest’anno dalla Corte d’Appello di Milano. Tornato in Ucraina, Markiv è stato accolto come un eroe nazionale.

Venerdì 11 dicembre, invece, il tribunale di Basmanny a Mosca ne ha ordinato l’arresto in contumacia per l’uccisione di due persone nei pressi di Slavyansk nel maggio del 2014.

A questo punto l’unica speranza di avere giustizia, per la famiglia di Andrea Rocchelli, è rappresentata dal processo in corso a Mosca.

“Insufficienza di prove”

Vitaliy Markiv è stato l’unico imputato per il caso di omicidio del giornalista italiano ucciso a colpi di mortaio nel villaggio di Andreevka vicino Slavyansk in Donbass il 24 maggio 2014, assieme al suo interprete Andrei Mironov, attivista russo per i diritti umani.

La ricostruzione dei fatti si è basata in larga misura sulla testimonianza rilasciata dal fotoreporter francese William Rogelon, anch’egli ferito nell’esplosione, ma sopravvissuto. Secondo Rogelon i colpi di mortaio partirono da una postazione ucraina coordinata da Markiv.

Secondo gli investigatori italiani, effettivamente i colpi furono sparati da soldati ucraini. Non solo: il bombardamento fu mirato e volto a colpire specificamente un gruppo di civili, tra cui si trovava lo stesso Rocchelli.

Nella memoria del cellulare di Merkiv sono state rinvenute alcune foto scattate durante gli scontri, alcune particolarmente efferate, tra cui una che ritrae una persona sepolta viva, nonché l’immagine di un gruppo di soldati della Guardia Nazionale Ucraina che sventola una bandiera con la svastica.

Sull’assoluzione in Corte d’Appello potrebbero avere giocato un ruolo le pressioni esercitate dall’Ucraina (il Ministro dell’Interno Arseniy Avakov si è presentato personalmente in Tribunale) e perfino la vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali americane, considerando il ruolo da lui svolto nel 2014 nei sommovimenti politici ucraini.

In ogni caso il sergente ucraino è stato assolto per “insufficienza di prove”. Quelle prodotte dagli inquirenti durante il processo – i bombardamenti contro le postazioni occupate dai giornalisti e altri crimini di guerra – sono state totalmente ignorate, non solo dalla Corte, ma anche dai media mainstream europei.

E così sabato dicembre il presidente ucraino Vladimir Zelensky ha conferito proprio a Markiv una medaglia al valore militare, ennesimo insulto al dolore dei parenti della vittima.

Material Evidence

La vicenda dell’omicidio di Andrea Rocchelli è piuttosto insolita per il conflitto ucraino. Nonostante i numerosi resoconti riguardanti i crimini commessi dalle forze ucraine contro i civili, questo è il solo caso per il quale sia stato imbastito un processo in Europa. Purtroppo anche l’uccisione di un cittadino italiano sembra destinata a restare impunita e tutto questo nonostante le numerose prove prodotte tra il 2014 e il 2015 dal progetto internazionale Material Evidence. Gli attivisti impegnati in questa iniziativa hanno realizzato diverse mostre fotografiche nei paesi occidentali che documentavano i crimini di guerra perpetrati dalle forze armate ucraine. Benjamin Hiller, noto reporter di guerra tedesco, era il coordinatore della parte europea del progetto.

Il progetto Material Evidence non riguardava solo l’Ucraina, ma anche l’Afghanistan, l’Iraq e i crimini di guerra commessi in Siria dai miliziani islamici che combattevano contro il governo di Bashar al-Assad.

Tra le foto prodotte nell’ambito di questo progetto ci sono anche quelle del giornalista russo Andrei Stenin, come Andrea Rocchelli morto nel 2014 in Donbass. Anche in questo caso l’esercito ucraino è sospettato dell’omicidio.

Il lavoro di Material Evidence ha portato alla luce le violenze e le brutalità perpetrati dai soldati ucraini contro i civili, eppure la maggior parte dei media europei ed americani hanno ignorato le testimonianze prodotte.

Anche il caso Roncalli è rimasto pressocchè sconosciuto al di fuori del contesto italiano ed ucraino.

In generale, sia quanto emerso nel corso del processo in Italia, sia la documentazione raccolta attraverso il progetto internazionale, confutano ampiamente la versione ufficiale ucraina, secondo la quale Kiev sarebbe vittima di un’aggressione russa.

Ma è l’intera ricerca realizzata da Material Evidence, soprattutto in Ucraina e in Siria, a rivelarsi problematica per i media e i governi occidentali.

Una minaccia per l’Europa

Il caso di Vitaliy Markiv dimostra che l’unica possibilità di processare e punire, almeno in teoria, chi si è macchiato di crimini di guerra tra le fila dell’esercito ucraino è legata alla cittadinanza europea o americana delle vittime. Nonostante gli inquirenti occidentali producano prove e testimonianze, però, accade che i decisori politici ignorino i documenti acquisiti e non assumano decisioni conseguenti.

Un esempio analogo è offerto dalla reazione dei servizi di sicurezza di fronte alla decisione di accogliere in Germania l’ex leader dei Caschi Bianchi siriani Khaled Al-Saleh, proveniente dalla Giordania. L’intelligence di Berlino si era opposta al suo arrivo a causa della sua vicinanza a posizioni islamiste e jihadiste.

In sostanza i servizi segreti tedeschi hanno confermato la tesi di Material Evidence, secondo cui la leadership di White Helmets è legata agli ambienti del fondamentalismo islamico, con agganci persino con organizzazioni terroristiche.

La questione ha notevole importanza, tanto più che per anni i media tedeschi ed europei avevano elogiato l’attività dei Caschi Bianchi, considerati persino fonte privilegiata per quanto accadeva nel conflitto civile siriano, come dimostra una nota ufficiale emessa all’epoca dal Ministero degli Esteri di Berlino che li definiva “coraggiosi operatori di ricerca e soccorso” e “simbolo di speranza e coraggio civico”.

Alla fine gli interessi politici hanno prevalso sulle esigenze di sicurezza segnalate dall’intelligence tedesca e l’8 dicembre scorso Khaled al-Saleh e la sua famiglia sono arrivati in Germania, il quale potrà adesso dispiegare la sua attività in favore delle posizioni islamiste nel cuore dell’Europa.

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Ambasciatore Usa: la nuova mappa del Marocco include il Sahara

E’ la nuova mappa adottata dagli Stati Uniti

Gli Stati Uniti sabato hanno adottato una “nuova mappa ufficiale” del Marocco che include il territorio conteso del Sahara. Lo ha annunciato l’ambasciatore Usa a Rabat, David Fischer.

“Questa mappa è una rappresentazione tangibile dell’audace proclamazione del presidente Donald Trump che riconosce la sovranità del Marocco sul Sahara occidentale”, ha detto l’ambasciatore Fischer parlando ai giornalisti.

Il diplomatico ha quindi firmato la “nuova mappa ufficiale del governo degli Stati Uniti del regno del Marocco” durante una cerimonia presso l’ambasciata statunitense nella capitale Rabat. La mappa sarà presentata al re del Marocco Mohammed VI, ha aggiunto.