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Imprese militari private: ecco cosa serve all’Italia

Guerre ibride

Il concetto di “guerra ibrida” è un concetto ben noto non solo agli esperti di relazioni internazionali e teorie della guerra, ma anche ai giornalisti. Di norma, in tale guerra l’azione ostile si sostanzia in una combinazione di operazioni segrete, sabotaggio, guerra informatica, oltre al supporto degli insorti che operano sul territorio nemico.

La definizione di “guerra ibrida” è così ampia che tale guerra è talvolta può essere riferita anche ad azioni prive di una componente militare attiva. Ad esempio, il presidente della Bielorussia Alexander Lukashenko ha definito la pressione diplomatica dei paesi dell’UE su di lui e l’organizzazione di proteste di massa nel suo paese una “guerra ibrida”. Prima di Lukashenko, i funzionari statunitensi, compreso l’ex segretario di Stato Rex Tillerson, definirono “l’interferenza” russa nelle elezioni statunitensi “una guerra ibrida”.

Questo ampio uso del termine da parte dei politici oscura in qualche modo i cambiamenti cruciali che stanno effettivamente avvenendo sul campo di battaglia.

La maggior parte delle guerre e dei conflitti moderni, dagli eventi in Ucraina nel 2014, passando per le guerre in Libia, Siria, Yemen, fino ad arrivare al recente conflitto in Nagorno-Karabakh, avvengono attraverso le modalità della guerra ibrida.

Il confronto diretto tra le potenze ha lasciato il posto a metodi più sofisticati, con attori che agiscono per procura, modalità che rendono, volutamente, difficile determinare quale operatore del paese stia utilizzando il drone e conducendo l’azione. A ciò si aggiungono le operazioni nel cyberspazio e la guerra dell’informazione, dove il giornalista è di regola un soldato, ma su un fronte speciale: quello dei media.

Attori per procura: perché sono necessari

Tuttavia, l’elemento più importante della moderna guerra ibrida è l’uso di attori per procura. Il fenomeno delle guerre per procura era già in uso durante la Guerra Fredda. Poi, nel 1964, il politologo americano Karl Deutsch definì questo tipo di azione come “una guerra internazionale tra due potenze straniere, combattuto sul suolo di un paese terzo, e camuffato da conflitto su una questione interna di quel paese; e usando parte di questo manodopera, risorse e territorio del Paese come mezzo per il raggiungimento di obiettivi e strategie estere preponderanti”.

Una definizione più contemporanea di guerra per procura è fornita da Daniel L. Byman della Brookings Institution, il quale afferma che la guerra per procura viene intrapresa “quando una grande potenza istiga o gioca un ruolo importante nel sostenere e dirigere una parte in un conflitto, ma compie solo una piccola parte del combattimento stesso”.

Andrew Mumford, professore di studi sulla guerra e vicedirettore della School of Politics and International Relations presso l’Università di Nottingham, definisce la guerra per procura come “impegno indiretto in un conflitto da parte di terzi che desiderano influenzarne strategicamente l’esito.

Questa definizione riflette un cambiamento nella comprensione delle guerre per procura rispetto a come il fenomeno era percepito durante la Guerra Fredda. Ora le guerre per procura rappresentano qualsiasi conflitto condotto da alcuni e indirizzato da altri.

Da quando gli Stati Uniti, all’inizio degli anni 2000, hanno affermato che tale tipo di guerra può essere condotta non solo contro avversari, ma anche contro alleati, i conflitti per procura sono diventati ancora più complessi. Così gli Stati Uniti di fatto furono i primi a riconoscere apertamente le nuove strutture flessibili della guerra moderna.

Ad esempio, in Siria, gli Stati Uniti hanno organizzato i curdi nelle forze democratiche siriane per combattere l’ISIS. Ora, sulla base delle SDF, gli americani detengono i giacimenti petroliferi della Siria, usando il fattore curdo per fare pressione su Bashar Assad e la Turchia (anche se formalmente la Turchia è un alleato degli Stati Uniti).

In Yemen, l’Iran sta usando i ribelli Houthi per combattere l’Arabia Saudita e l’intervento degli Emirati Arabi Uniti, mentre gli Emirati Arabi Uniti nello stesso conflitto sostengono il Consiglio di transizione meridionale. Sono i separatisti dello Yemen meridionale che stanno combattendo contro i ribelli Houthi. Tuttavia, il Consiglio di transizione meridionale ha combattuto e periodicamente attaccato gli alleati dei sauditi, i sostenitori del partito islamista Islah e le truppe del presidente Hadi. Formalmente, tuttavia, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono alleati in questo conflitto.

In entrambi i casi, l’uso di attori per procura consente ai giocatori dietro di loro di condurre un confronto più flessibile, facilitando il movimento tra alleati formali e avversari.

Detto questo, per condurre una moderna guerra per procura, spesso non è solo importante utilizzare o organizzare formazioni per procura sul campo, ma anche avere sempre a disposizione forze per procura che possono essere spostate da un fronte all’altro. Per l’Iran, ad esempio, una tale forza sono le brigate Liwa Fatemiyoun e Liwa Zainebiyoun dell’IRGC, formate da rifugiati provenienti da Afghanistan e Pakistan. Ma altri giocatori, di regola, usano PMC, società militari private, per questo scopo.

“I PMC sono pronti a diventare in futuro scommesse chiave per la guerra per procura”, osserva Andrew Mumford.

Gli esperti concordano sul fatto che le compagnie militari private hanno due importanti vantaggi rispetto all’esercito regolare: il loro uso è più economico e non causa qualcosa di simile alla “sindrome del Vietnam” all’interno della società.

Le società militari private (PMC) sono ormai parte integrante della politica mondiale moderna. Sono sempre più utilizzate in numerosi conflitti armati in tutto il mondo. Lo status di queste realtà consente il loro impiego da parte di Governi che non vogliono pubblicizzare la presenza dei loro militari per motivi politici stranieri o interni.

Di norma, queste strutture lavorano a stretto contatto con le agenzie militari e di intelligence dei loro paesi. Le PMC sostengono la reputazione e altri costi associati alla morte e alle lesioni dei soldati che non sono riportati negli elenchi dell’esercito regolare, ma ne svolgono il lavoro.

Attori per l’Italia

Il paese più vicino all’Italia dove è in corso la guerra per procura è la Libia. Il dispiegamento in Libia di combattenti siriani addestrati e organizzati dalla Turchia ha dimostrato che Ankara è stata in grado di trasformare l’esercito nazionale siriano ribelle in un delegato secondario. I turchi, costituiti da combattenti locali, hanno organizzato ad hoc una forza capace di combattere ovunque il conflitto si muova. Praticamente è una via di mezzo tra gli iraniani e l’esperienza occidentale delle PMC, dato che i siriani operano sotto il controllo della PMC SADAT turca.

La Libia è il vicino più importante dell’Italia, sia in termini di sicurezza, visto il ruolo di controllo sulla migrazione di massa, sia in termini di energia. Tuttavia, la Turchia e la Russia sono ora nelle prime posizioni nel determinare il futuro di questo paese. Entrambi stanno utilizzando attivamente attori per procura sotto forma di PMC (rapporti su SADAT e Gruppo Wagner in Libia), mentre Roma, alla vecchia maniera, si basa su accordi con i politici e sulla presenza di un piccolo numero dei suoi militari.

Chiaramente, Roma dovrebbe pensare a plasmare la sua strategia di guerra per procura e utilizzare attori per procura per garantire gli interessi nazionali se vuole mantenere la sua influenza in Libia e in altre regioni del mondo strategiche per l’Italia. Allo stesso tempo, è ovvio che l’unica opzione possibile per l’Italia per creare i propri attori per procura sembrano essere le società militari. L’Italia ha già esperienza in partenariati pubblico-privati ​​nel campo della sicurezza marittima, una possibilità estendibile anche a terra.

Mettiamo a confronto tre modelli di PMC nel mondo di oggi: quello occidentale (principalmente americano), quello russo e, infine, quello turco, per capire quali modelli dovrebbe seguire l’Italia. Per confronto, prenderemo i seguenti parametri: addestramento e esperienza di combattimento, ideologia e conseguenze dell’uso.

Esperienza di addestramento e combattimento

Di regola, negli Stati Uniti (prendiamo principalmente Blackwater, ribattezzata Academi) e in Russia (Wagner Group) le PMC sono formate da ex militari, inclusi ex membri di unità speciali.

Blackwater è salito agli onori delle cronache nel 2007, quando un gruppo di suoi dipendenti ha ucciso 17 civili iracheni e ferito 20 persone in Nisour Square a Baghdad, per cui quattro mercenari statunitensi sono stati condannati negli Stati Uniti, ma recentemente graziati dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

Blackwater, poi Academi, che nel 2014 è entrata a far parte di Constellis, ha esperienza nella guerra in Iraq e Afghanistan. Altre PMC statunitensi sono presenti in Somalia.
Ci sono state notizie sulla loro partecipazione alla guerra in Yemen dalla parte della coalizione anti-Houthi.

L’esperienza dei russi, sebbene più ristretta, appare più profonda. Dal 1979 combattono con i mujaheddin in Afghanistan e successivamente con i ribelli in Cecenia. Considerando che la maggior parte delle guerre per procura sono combattute nei paesi musulmani e che i paesi europei sono osteggiati da gruppi islamici irregolari, i russi hanno un’esperienza unica e preziosa nell’affrontare questa minaccia.

Il Wagner Group è composto in gran parte da veterani dei conflitti in Afghanistan e Cecenia, conoscono quindi molto bene questo nemico.

La principale esperienza delle PMC americane è la protezione di strutture e missioni diplomatiche, oppure azioni mirate volte all’eliminazione diretta dei nemici. In Yemen, ad esempio, i mercenari statunitensi sono stati assunti dagli Emirati Arabi Uniti per assassinare i leader del partito Islah, alleato dell’Arabia Saudita, che a sua volta è alleata degli Emirati Arabi Uniti nella coalizione anti-Houthi.

Gli Emirati Arabi Uniti, tuttavia, considerano Islah, il ramo yemenita del movimento dei Fratelli Musulmani, una minaccia per se stesso.

I russi sono direttamente coinvolti nelle operazioni di combattimento sul fronte. È il gruppo russo PMC Wagner sul terreno in Siria, impegnato nella lotta contro l’ISIS, ad aver liberato parti significative del paese, inclusa la città di Palmyra, riconosciuta dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità.

Mentre le PMC americane hanno esperienza principalmente nell’occupazione, i russi hanno esperienza nella controffensiva e sono usati soprattutto per respingere terroristi o elementi radicalizzati e per liberare importanti aree strategiche. In particolare, il Gruppo Wagner in Siria, oltre a Palmyra, ha dato un importante contributo alla liberazione delle regioni orientali e centrali della seconda città più grande della Siria, Aleppo. Wagner è intervenuto anche per liberare i giacimenti di gas Shaer nella provincia settentrionale di Homs da i terroristi dello Stato Islamico e per eliminare una compagine dell’Isis a Deir Ezzor.

Questa esperienza richiede indubbiamente un attento studio in Italia. Nel complesso, i russi hanno molta più esperienza di combattimento all’interno delle PMC in termini di superamento dell’offensiva nemica, difesa e addestramento degli alleati che americani e altri PMC e PMSC occidentali (compagnie militari e di sicurezza private).

Il PMC SADAT turco, che esiste dal 2012, è un fenomeno speciale. In origine era orientato agli ex militari islamisti, che non hanno trovato posto nell’esercito regolare turco, dove le tradizioni del secolarismo sono forti. Di fatto, SADAT supervisiona l’Esercito nazionale siriano, che insieme agli istruttori SADAT prende parte alle operazioni di combattimento in Siria e Libia. Inoltre, c’erano informazioni sulla partecipazione dei mercenari siriani alla recente guerra in Nagorno-Karabakh dalla parte dell’Azerbaigian. Se questi rapporti sono veri, possono arrivarci solo attraverso SADAT.

Il SADAT ha esperienza nella guerra ibrida, ma a causa della presenza tra le sue fila di molti ribelli siriani, ha una disciplina molto inferiore rispetto a quella dell’esercito regolare. La Turchia promuove attivamente il brand SADAT, soprattutto nei paesi musulmani. Esistono report secondo cui il PMC è presente nelle basi turche in Somalia e Qatar. Il fattore islamista gioca un ruolo importante nella formazione di questo PMC. Ovviamente si tratta di una esperienza non traducibile nel contesto italiano.

L’ideologia

La figura del fondatore della Blackwater, Eric Prince, dimostra che c’è una certa ideologia dietro le PMC americane. Prince definisce sé stesso un “ragazzo del libero mercato”, vicino al mondo degli affari e all’estrema destra protestante americana (sebbene formalmente Prince sia cattolico).

Le PMC americane rappresentano uno strumento dell’egemonia statunitense, promuovendo l’ideologia dell’eccezionalismo americano, quella di un mondo unipolare. Di norma, le PMC di tutto il mondo lavorano a stretto contatto con i servizi militari e di sicurezza dei loro paesi.

Anche la figura del fondatore del SADAT, il generale turco Adnan Tanriverdi, la dice lunga sulla sua ideologia in diffusione.

Il generale islamista, vicino al presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, è sempre stato una pecora nera nelle forze armate turche, orgoglioso del suo secolarismo. Tuttavia, la guerra in Siria, e poi l’intervento della Turchia nel conflitto militare in Libia, hanno notevolmente cambiato la sua posizione. Nel 2016 Tanriverdi è diventato consigliere ufficiale del presidente turco.

In questa posizione è rimasto fino a poco tempo, all’inizio del 2020, quando è scoppiato uno scandalo in Turchia: Tanriverdi ha pubblicamente dichiarato che si stava preparando per l’arrivo del Mahdi, figura che nell’Islam segna l’arrivo della Fine del Mondo e della finale battaglia escatologica delle forze dell’Islam contro il male. Contemporaneamente, tuttavia, né Tanriverdi né SADAT hanno perso la loro posizione speciale. È il SADAT che è attivamente coinvolto nel conflitto libico inviando mercenari dalla Siria.

 Inoltre, il generale Tanriverdi continua a fare dichiarazioni politiche islamiste. Ad esempio, il Center for Strategic Studies of Advocates of Justice (ASSAM), di cui Tanriverdi è presidente, sostiene la creazione della confederazione islamica Asrika, composta da Asia e Africa.

Cercare l’aiuto del SADAT significa adottare un modello ideologico non meno rigido di quello dell’Occidente: l’Occidente chiede la fede nella democrazia e una comprensione occidentale dei diritti umani. La Turchia promuove il suo progetto islamista, dietro al quale c’è la Fratellanza Musulmana, riconosciuta come estremista e terrorista in molti paesi del mondo.

Oggi, l’unica alternativa possibile alle PMC occidentali e all’esercito privato turco di Erdogan, nel campo delle compagnie militari private, è rappresentata dai russi – soprattutto dal gruppo Wagner.

La Russia nell’ambito delle relazioni internazionali è impegnata nel principio del multipolarismo. Si presume che diverse civiltà nel mondo abbiano i propri sistemi di valori, sulla base dei quali costruiscono i modelli politici appropriati per un particolare paese.

Le PMC russe non impongono i loro modelli ideologici ai loro partner, il che è un vantaggio importante nel lavorare con altri paesi, nel rispetto della sovranità degli altri paesi. Ricordiamo che gli americani sono arrivati in Iraq e in Afghanistan, semplicemente invadendo questi paesi. I russi, invece, sono stati chiamati dai governi ufficiali (Siria e Repubblica Centrafricana ad esempio). La notevole esclusione a questo orientamento è la Libia, dove si dice che il Gruppo Wagner sostenga le forze di Khalifa Haftar. Tuttavia, nel conflitto libico entrambi i governi rivali (di Tripoli e di Bengasi) mancano di piena legittimità.

È anche importante che i combattenti russi delle compagnie militari private non siano principalmente motivati ​​dal denaro, ma da un senso di patriottismo e da un desiderio di autorealizzazione attraverso la guerra.

Conseguenze dell’utilizzo delle PMC

Consideriamo ora i risultati delle varie attività di PMC.

In Iraq e Afghanistan la questione del ritiro delle rimanenti truppe statunitensi è all’ordine del giorno. Tuttavia, in nessuno dei due paesi gli Stati Uniti hanno raggiunto l’obiettivo dichiarato. Non abbiamo finito con il terrorismo. Al contrario, è stato a causa dell’invasione americana di questi paesi che è emerso l’ISIS. La stessa cosa è in Somalia, dove le PMC occidentali sfruttano solo la mancanza di statualità, ma il paese è diventato un esportatore di terrore e instabilità in Africa.

In Iraq, gli americani hanno ottenuto il controllo di alcune delle risorse petrolifere del paese. Il prezzo è stato la distruzione dello Stato iracheno e il rafforzamento dell’Iran, che gli stessi Stati Uniti considerano un nemico più pericoloso di quanto fosse l’Iraq di Saddam Hussein. L’immagine pubblica degli Stati Uniti e delle PMC americane dopo lo scandalo intorno a Blackwater è rovinata.

Il risultato delle attività della SADAT turca è l’espansione della zona di influenza degli islamisti in Siria e Libia. Di fatto, sono alleati di gruppi armati illegali: un terreno fertile per la crescita dell’islamismo e delle strutture terroristiche che minacciano la sicurezza di altri paesi. Anche questa è un’esperienza negativa per l’Europa. Ankara può anche leggerlo positivamente, ma gli islamisti nutriti da Erdogan potrebbero rivoltare le loro armi contro i loro stessi clienti in un attimo. Bisogna ricordare, inoltre, che anche Bin Laden era originariamente un alleato degli Stati Uniti.

Se si valutano le azioni di SADAT separatamente dalla loro ideologia, è evidente l’esistenza di numerosi svantaggi. SADAT arriva nei punti caldi, congelando di fatto il conflitto, come si può vedere in Siria e Libia. Tuttavia, i turchi non vogliono o non sono in grado di modificare in modo significativo gli equilibri di potere o di contribuire alla ricostruzione.

Le PMC russe in Siria hanno fermato l’ISIS e non hanno permesso loro di trasformare il paese in un baluardo dell’estremismo islamico. Uno stato laico è stato preservato in Siria. Damasco è un alleato di Mosca e la Siria, a differenza dell’Iraq, non è uno stato fallito. I siriani hanno un atteggiamento positivo nei confronti della Russia e la ringraziano per il suo aiuto. Mosca, usando le PMC, è riuscita a ottenere vittorie reputazionali in Siria, e non si tratta di vittorie conseguite solo sul campo di battaglia.

Il gruppo Wagner in Siria, Libia e Repubblica centrafricana si è posizionato principalmente come una forza che fornisce ordine e sicurezza. Se SADAT rappresenta il congelamento rapido di un conflitto, il Gruppo Wagner ne è la risoluzione. I russi esportano sicurezza contribuendo allo sviluppo delle forze armate dei loro partner e proteggendo alleati e partner.

Ciò è stato chiaramente dimostrato sia in Siria che in Ucraina, dove il Gruppo Wagner è riuscito a salvare la vita di migliaia di civili dai battaglioni di nazionalisti e dall’esercito ucraino.

I recenti eventi nella Repubblica Centrafricana dimostrano ancora una volta l’efficacia del Gruppo Wagner. Qui, infatti, le truppe locali, addestrate dai russi di Wagner, stanno efficacemente dissuadendo i ribelli con i propri istruttori e assicurando le elezioni presidenziali e le istituzioni della democrazia.

Quindi, è ovvio che l’Italia, sulla strada per sviluppare le proprie PMC, dovrebbe prestare maggiore attenzione all’esperienza russa, l’esperienza del Gruppo Wagner è l’esperienza di maggior successo nell’uso delle PMC nella guerra ibrida.

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Perché l’ISIS sta aumentando la sua attività in Siria?

L’impressione è che come un’araba fenice in Siria orientale l’ISIS stia risogendo dalle proprie ceneri. E’ dalla fine di dicembre, infatti, che da quella regione giungono allarmanti notizie relative a un aumento delle attività terroristiche. Il 25 dicembre, ad esempio, un autobus che trasportava truppe siriane è esploso sull’autostrada Palmyra-Deir Ezzor, provocando la morte di decine di persone. Poco dopo, il generale di brigata Mazen Ali Hassoun è stato ucciso in un attentato dai terroristi ad Abu Kamal.

Alla vigilia di Capodanno, il 30 dicembre, l’esercito siriano ha subito un altro attacco sull’autostrada Deir Ezzor-Homs e l’offensiva è proseguita in queste due prime settimane del nuovo anno. Il 5 gennaio, un veicolo del governo è stato fatto saltare in aria nella città di alMayadin, mentre ANSAmed ha riferito che da venerdì scorso 15 soldati governativi risultano dispersi mentre erano in viaggio nella Siria centrale, a est di Hama, su un autobus diretto a Raqqa.

Si tratta della stessa strada lungo la quale il convoglio era già stato bombardato in precedenza. Fonti locali, citate da ANSAmed, hanno riferito ch i soldati potrebbero essere stati fatti prigionieri da militanti Isis. L’aumento dell’attività terroristica è vista con preoccupazione da Damasco e avviene in una fase in cui a livello diplomatico sono in aumento le tensioni con Stati Uniti, Israele e Turchia. Esso mette in evidenza le debolezze del governo siriano e potrebbe fornire un ottimo pretesto per un ulteriore intervento nel Paese da parte della coalizione antiterrorismo guidata dagli USA. Il rischio, oltre alla nuova ascesa dell’ISIS, e il ritorno di uno scenario di conflitto sul campo nella regione

La Russia, da tempo alleata del governo di Bashar al-Assad, pare disponibile a offrire il suo aiuto per tenere la situazione sotto controllo, sebbene proprio il ritiro delle forze armate di Mosca abbiano contribuito ad indebolire le strutture di sicurezza sul campo e, di conseguenza, a rafforzare l’ISIS. Dal 23 dicembre scorso i media dell’opposizione siriana hanno cominciato a notizie relative al ritiro russo da Deir Ezzor. In particolare, sono state pubblicate foto di mezzi militari che presumibilmente lasciavano la città.

Fonti locali affermano che la parte siriana teme che i miliziani dell’Isis possano impadronirsi della città di Deir Ezzor. I media arabi hanno riferito che dopo che è circolata la notizia del ritiro del contingente russo, gli attacchi terroristici contro Deir Ezzor sono notevolmente aumentati.

Non è solo l’ISIS ad aver ripreso l’iniziativa. Anche le milizie curde hanno intensificato la propria attività e i media siriani insistono sul vuoto di potere e controllo venutosi a creare nella provincia proprio a causa dell’evacuazione dei militari di Mosca. Il Cremlino, però, non ha rilasciato dichiarazioni ufficiali in proposito. Secondo lo scrittore siriano e analista politico dell’opposizione Hadi Abdullah le unità militari russe i contractors privati ​​si starebbero spostando dalla città di Deir Ezzor nella parte occidentale del paese o, molto probabilmente, a Latakia.

“Sapendo che l’amministrazione Biden è ferocemente ostile al regime siriano, è possibile che la Russia non sia più interessata a difendere l’attuale governo siriano nel caso in cui le forze supportate dagli Stati Uniti decidano di intervenire”, ha affermato l’attivista dell’opposizione.

 La maggior parte delle truppe russe in partenza non sono unità regolari delle forze armate russe, ma membri della compagnia militare privata Wagner Group, che rappresenta il grosso della presenza militare russa in Siria. Gli uomini del Gruppo Wagner hanno avuto un ruolo decisiva sull’esito dei combattimenti avvenuti nella provincia di Deir Ezzor nel 2017, liberando di fatto il capoluogo dall’assedio dell’ISIS. Grazie a loro, le truppe dell’ISIS hanno perso il controllo sui giacimenti petroliferi nella regione, privando l’organizzazione terroristica di una parte significativa dei propri finanziamenti. La sconfitta dell’Isis a Deir Ezzor è stato un colpo decisivo per l’Isis, dal quale sembrava improbabile che i terroristi potessero riprendersi.

Ma ora il ritiro russo lascia un vuoto di potere, che i terroristi cercheranno di colmare, con inevitabili contraccolpi sulla sicurezza non solo della Siria, ma dell’intero Medio Oriente.

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Ahmed Maiteeq a Roma: un tentativo di leadership

Ahmed Maiteeq, vice primo ministro del Governo libico di intesa nazionale (Gna), il 12 gennaio è venuto in visita in Italia. Durante la sua visita ha incontrato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini e il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Secondo quanto riportato dai media, la discussione è stata incentrata sulla cooperazione bilaterale tra i due Paesi.

In particolare, l’incontro con il ministro Di Maio ha riguardato i futuri possibili accordi per la ripresa dei collegamenti aerei tra Libia e Italia. Sono emersi anche gli sforzi italiani per garantire il buon esito del dialogo politico. La discussione tra Lamorgese e Maiteeq, invece, si è concentrata sui temi due temi più caldi attualmente esistenti nel Mediterraneo e tra i due Paesi: il terrorismo e l’immigrazione clandestina.

Come ha riportato lo stesso Ahmed Maiteeq sul suo profilo Twitter, il focus dell’incontro con il ministro Guerini a Roma ha riguardato la firma di un accordo con il Ministero della Difesa italiano relativo alla medicina militare.

Guerini ha scritto nel suo account Twitter che “Si rafforza un legame di amicizia tra Italia e Libia”, e che “L’Italia si è impegnata a sostenere il rafforzamento del dialogo intra-libico”.

Qual è lo scopo della visita del vice primo ministro libico a Roma? Viste le tempistiche e il tenore dei colloqui, è probabilmente che Maiteeq stia cercando il sostegno dell’Italia alla vigilia di importanti sviluppi politici in Libia, dove proseguono i negoziati sulla futura struttura del Paese.

Gli effetti del Libyan Political Dialogue Forum

Alla fine di dicembre, i partecipanti al Libyan Political Dialogue Forum (LPDF), avviato dall’ONU, hanno annunciato la creazione di un comitato consultivo.

I 18 membri del comitato consultivo del Forum, infatti, si incontreranno presso la sede delle Nazioni Unite (ONU) a Ginevra dal 13 al 16 gennaio allo scopo di dare vita ai nuovi attori da impiegare per la transizione del Paese.

Tuttavia, la situazione politica rimane nel limbo. Il Libyan Political Dialogue Forum di novembre non è riuscita nel suo scopo principale, non avendo creato un vero consenso attorno alla creazione di un’unica autorità esecutiva in Libia, al contrario, ha esacerbato i problemi esistenti, e i partecipanti all’LPDF si sono accusati a vicenda di corruzione. Inoltre, aspetto non secondario, in molti hanno espresso scetticismo nei confronti dell’idea stessa di riunire 75 persone nominate dall’ONU e dare loro il diritto di decidere il futuro della Libia.

Libia: dal 2011 a oggi

In Libia, dal 2011 è in corso una guerra civile dopo l’intervento della NATO. A questo punto le due forze più influenti in Libia: il Gna e l’esercito nazionale libico di Khalifa Haftar sono l’una di fronte all’altra. L’Italia stessa sta lavorando a stretto contatto con il Gna. Tuttavia, non c’è consenso nemmeno all’interno del Gna sul futuro dell’Lpdf.

Il primo ministro in carica del Gna, Fayez al-Sarraj, formalmente bendisposto nei confronti del Lpdf, è sostenuto da comandanti militari che hanno pubblicamente manifestato più volte la contrarietà alla soluzione imposta dal Forum, schierandosi apertamente a favore del mantenimento di al-Sarraj e del GNA fino alle elezioni previste per la fine del 2021.

Al contrario, i Fratelli musulmani e l’influente ministro degli Interni libico, Fathi Bashagha, sperano che l’Lpdf li aiuti a compiere un giro di vite nei centri del potere di Tripoli. Bashagha è considerato il candidato dei radicali che aspirano al potere. Tuttavia, anche lui cerca sostegno all’estero, come dimostra la recente visita di Bashagha in Francia avvenuta lo scorso novembre.

Ahmed Maiteeq ha ripetutamente affermato di essere pronto anche a guidare il nuovo governo ad interim della Libia, e finora la sua candidatura sembra l’opzione più accettabile, almeno per i vicini della Libia, Italia compresa. È stato Maiteeq che nel settembre 2020 è riuscito a sbloccare le esportazioni di petrolio della Libia, precedentemente bloccate da Haftar: ciò ha permesso al colosso petrolifero italiano Total di riprendere le operazioni in Libia. L’accordo Maiteeq-Haftar ha contribuito ad intensificare il processo di negoziazione ed è stato seguito dalla firma di un cessate il fuoco a lungo termine nell’ottobre 2020. Inoltre, ha creato le condizioni per rafforzare la fiducia reciproca e risolvere i problemi economici del paese.

Ahmed Maiteeq è considerato un politico neutrale, lontano dall’islamismo nella versione dei Fratelli musulmani. Ha stretti legami d’affari in Libia ed è la personalità più pragmatica seduta al tavolo delle trattative, una qualità fondamentale nella costruzione di relazioni bilaterali. In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera nel novembre 2020, Maiteeq ha sottolineato la necessità di un dialogo inclusivo con tutte le parti in conflitto in Libia, sottolineando che “L’isolamento è inutile, crea solo opportunità di guerra”.

Ora una figura del genere potrebbe essere l’ideale uno per ascoltare tutte le forze in Libia e per garantire i preparativi per le elezioni di dicembre 2021.

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Ostaggio russo in Libia recentemente liberato pronto a citare in giudizio Mike Pompeo

Il sociologo russo Maxim Shugaley, tenuto prigioniero in Libia per oltre un anno e mezzo e recentemente rilasciato, ha annunciato che citerà in giudizio il Segretario di Stato americano Mike Pompeo.

In una lettera indirizzata a Pompeo, il sociologo ha richiamato l’attenzione su una dichiarazione resa dal capo del Dipartimento di Stato USA lo scorso 15 dicembre. In essa Pompeo, annunciando la liberazione di due cittadini russi, li definiva “agenti colti mentre operavano per destabilizzare la politica libica”.

Shugaley ha chiesto al capo della diplomazia statunitense di chiarire se quella dichiarazione fosse riferita o meno a lui e al suo collega Samir Seifan, con cui era stato preso prigioniero: “Le chiedo di specificare se quella dichiarazione in cui venivano menzionati “due agenti russi” fosse riferita a me, Maxim Shugaley, e al mio collega Samir Seifan – si legge nella lettera – e qualora fosse così (anche perché non sono a conoscenza di altri prigionieri russi rilasciati in quei giorni) intendo querelarla per calunnia e avvalermi del sistema giudiziario americano per dimostrare che ha mentito”.

Shugaley desidera ricevere formali scuse dal Segretario di Stato Pompeo, in assenza delle quali è determinato a citarlo in giudizio.

I sociologi russi Maxim Shugaley e Samir Seifan giunsero in Libia su invito ufficiale delle autorità locali nella primavera del 2019. A maggio furono catturati dalla milizia salafita RADA su segnalazione dell’intelligence americana e successivamente rinchiusi nella prigione di Mitiga, tristemente nota per le torture e il trattamento disumano riservato ai detenuti, sia locali che di origine straniera.

La Libia continua ad essere un paese pericoloso per i cittadini stranieri, come dimostra la recente liberazione dei 18 pescatori provenienti da Mazara del Vallo fatti prigionieri alla largo delle coste libiche, essendo spesso utilizzati come ostaggi e merce di scambio geopolitica nello scontro tra il Governo di Accordo Nazionale di Fayez al Sarraj e l’Esercito Nazionale Libico del generale Khalifa Haftar.

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Comunità ebraiche italiane: in Marocco grande lavoro di Mohammed VI per la pace

Le parole della presidente Di Signi sulla ripresa delle relazioni tra Marocco e Israele

Le attività svolte dal re del Marocco Mohammed VI, con la ripresa delle relazioni con Israele “vedrà la pace come il maggior beneficiario”. E’ quanto ha affermato il presidente della Federazione delle Comunità Ebraiche italiane, Noemi Di Signi, parlando alla stampa marocchina. Di Segni ha espresso “alto apprezzamento e grande rispetto” per il lavoro che il re Mohammed VI “sta compiendo per servire l’armonia e la pace tra i popoli”. Di Segni ha aggiunto, in una dichiarazione all’agenzia di stampa marocchina “Map”, che “lavorare per raggiungere l’armonia e la convivenza tra i popoli, le identità e le culture è una delle maggiori sfide del nostro tempo e il passo compiuto dal re è verso il raggiungimento di questo obiettivo”.

Il presidente della Federazione delle Comunità Ebraiche italiane ha sottolineato che la dichiarazione congiunta, che segna l’inizio di una nuova era nelle relazioni tra il Regno del Marocco e lo Stato di Israele, costituisce un punto di svolta che “fa sperare che ci saranno molti frutti che si potranno raccogliere in futuro” e “tutti ne trarranno beneficio. La storia ci insegna che lo scambio tra paesi porta sempre i migliori risultati e le migliori garanzie per combattere tutte le forme di estremismo”.

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Un nuovo asilo per i piccoli di Maaloula

Dopo la distruzione da parte di Al Qaida arriva la ricostruzione italiana

L’asilo San Giorgio di Maaloula, distrutto dai terroristi di Al Nousra Al Qaida, verrà ricostruito e tornerà ad ospitare bambini e bambine di tutte le confessioni religiose. Il “regalo natalizio” arriverà dalla Regione Piemonte, prima in assoluto tra tutte le regioni italiane ad intervenire in Siria con un progetto di cooperazione internazionale insieme alla Fondazione HOPE e al Patriarcato Greco-melchita cattolico.

Il progetto sosterrà il ritorno alla normalità della popolazione di Maaloula, gravemente colpita durante l’occupazione del gruppo terroristico jihadista Jabat Al Nousra (Al Qaida) nel 2013. Obiettivo specifico del progetto sarà quello di permettere il ritorno all’asilo in sicurezza di oltre 50 bambini di età compresa tra 3 e 6 anni, di tutte le religioni e confessioni presenti sul territorio cittadino, grazie alla ristrutturazione di 4 aule dell’asilo San Giorgio in sostituzione di quelle andate distrutte nel 2013 e ancora inagibili. Questo permetterà da un lato ai bambini di stare insieme in un contesto sereno (molti vengono da situazioni di grave disagio familiare tanto da non poter contribuire alle spese scolastiche) e ai genitori di svolgere il proprio lavoro in serenità sapendo i propri figli in un ambiente sicuro.

“Con questa azione umanitaria, unica finora nel panorama della cooperazione decentrata delle Regioni, riscopriamo il senso più vero del Natale – spiega l’assessore alla Cooperazione Internazionale della Regione Piemonte Maurizio Marrone. “Il Piemonte sarà protagonista della ricostruzione di quella culla della cristianità così profondamente ferita dall’odio islamista, partendo dall’assistenza ai bambini che rappresentano la migliore garanzia per il futuro di questa Siria, tornata sovrana all’insegna della libertà di culto e del pluralismo confessionale”.
“Maaloula è un luogo simbolico per cristiani e musulmani, che nel corso dei millenni ha rappresentato un modello riuscito di convivenza – dichiara Samaan Daoud, Desk Officer Medio Oriente di HOPE -. L’attacco terroristico di Al Nousra ha rappresentato quindi non solo un attacco nei confronti della popolazione cristiana, ma soprattutto a quello stesso “modello” faticosamente costruito e che oggi deve poter rinascere”.
“Ripartire con la ricostruzione dell’asilo è per noi un primo passo importante per edificare nuovamente il modello di convivenza che è stata la caratteristica di Maalolula – prosegue Marcello De Angelis, Vice Presidente di HOPE -. Questo sarà il primo mattone per ricostruire l'”edificio” della convivenza culturale e religiosa. Un segnale concreto, che contribuirà in maniera concreta. L’asilo è il luogo dove rinasce e cresce la convivenza. Nel momento in cui i bambini vivono lo stesso luogo, la stessa comunità torna a riannodare i suoi legami e ricucire le sue ferite”.

Prima dell’attacco del 2013 Maaloula contava circa 8.000 abitanti (15.000 in estate), attualmente sono rientrate nelle loro case circa 3.000 persone, mentre i restanti sono ancora rifugiati all’estero. Il progetto contribuirà anche a favorire il rientro profughi e a consentire a loro e a loro figli di riprendere una vita normale.

di E. C.

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Approfondimenti Dal Mondo

Libia: verso un nuovo approccio basato sul negoziato

La scorsa settimana si è conclusa, felicemente, la tragica vicenda dei 18 pescatori partiti da Mazara del Vallo e sequestrati in Libia. Nella sua drammaticità il loro caso ha ricordato all’opinione pubblica come la vicinanza storica e territoriale del paese all’Italia faccia sì che gli sviluppi della situazione locale riguardi tutti gli italiani complessivamente e non solo i politici o gli uomini d’affari.

Un mediatore importante

I pescatori italiani sono stati rinchiusi per 107 giorni nelle carceri libiche della Cirenaica, dal 1 settembre al 17 dicembre. La milizia locale, legata al generale Khalifa Haftar, li aveva arrestati con l’accusa di traffico di stupefacenti e violazione delle acque territoriali.

Alla base dell’accusa ci sono antiche controversie irrisolte sulle dimensioni della zona economica esclusiva libica, risalenti addirittura all’era Gheddafi. Il rovesciamento del rais e la frantumazione dello stato libico, le cui funzioni vengono oggi esercitate, a seconda delle aree territoriali, dalle fazioni egemoni, ha reso la situazione oltremodo caotica e imposto il generale Haftar, leader dell’Esercito Nazionale Libico (LNA), come il vero interlocutore per tutto ciò che concerne la Libia Orientale. La nota vicinanza di Roma al principale avversario di Haftar, il Governo di Accordo Nazionale (GNA) che controlla Tripoli e la parte occidentale, lascia facilmente intuire che l’arresto di cittadini italiani sia stato utilizzato anche come strumento di pressione politica nei confronti di Palazzo Chigi.

Decisiva per l’esito positivo della vicenda è stata la visita del premier italiano Giuseppe Conte e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio a Bengasi dove hanno incontrato Haftar. Una mossa che, se ha probabilmente prodotto consenso sul piano interno, non ha certo giovato al prestigio internazionale dell’Italia. Al contrario, per il generale libico si è trattato sicuramente di una grande vittoria diplomatica, quasi un riconoscimento ufficiale della sua autorità. Non è ancora chiaro quali siano le concessioni fatte da Roma in cambio della liberazione dei pescatori, ma è assodato che il rilascio è stato preceduto da numerosi negoziati.

Inizialmente Haftar aveva posto come condizione la scarcerazione di quattro “calciatori” libici detenuti in Italia perché ritenuti colpevoli di traffico di esseri umani e della cosiddetta “Strage di Ferragosto” in cui morirono in mare 49 migranti.

Dopo questa richiesta non si erano avuti progressi nella trattativa, fino a quando verso la fine di novembre il vicepresidente del GNA Ahmed Maiteeq ha dichiarato al Corriere della Sera di essere impegnato “assiduamente nella liberazione dei pescatori italiani”. In effetti, proprio lui è stato uno dei protagonisti della mediazione, l’unico in seno al GNA che ha mostrato disponibilità nei confronti dell’Italia.

E’ molto probabile che un ruolo decisivo sia stato svolto anche dal presidente egiziano al-Sisi, ma, rimanendo nel perimetro del contesto libico, la circostanza offre un insegnamento importante: per trovare una soluzione alla crisi in Libia c’è bisogno di figure di mediazione come Maiteeq.

L’accordo sul petrolio

Ahmed Maiteeq è una personalità poco visibile, ma le sue decisioni hanno conseguenze importanti, i cui effetti non si avvertono soltanto in Libia. Maiteeq è l’uomo-chiave, infatti, per ciò che concerne l’economia libica.

 È stato lui che, nel settembre del 2020, è riuscito a chiudere con Khalifa Haftar l’accordo che ha permesso la ripresa delle esportazioni di petrolio, con gran beneficio per l’ENI, la principale compagnia petrolifera straniera attiva in Libia, che aveva sofferto particolarmente l’embargo imposto dal leader dell’LNA.

Un accordo che ha avuto effetti positivi a trecentosessanta gradi, come dimostrano i colloqui tenuti a Tripoli circa una ventina di giorni fa da una nutrita delegazione della compagnia petrolifera guidata dall’amministratore delegato Claudio Descalzi, che hanno permesso di riavviare una serie di progetti bloccati da tempo.

Per il popolo libico l’accordo tra Maiteeq e Haftar ha significato la ripresa dell’economia e l’avvio di un processo di riconciliazione nazionale, che ha portato, come primo successo, al cessate il fuoco tra le milizie del GNA e dell’LNA. Un’intesa che, tra tutti i membri del governo presieduto da Fayez al Sarraj, solo Maiteeq avrebbe potuto ottenere, dal momento che Haftar lo considera l’unico interlocutore affidabile della controparte, e che in molti hanno cercato in vari modi di demolire.

Per l’Italia sarebbe di fondamentale importanza avere a Tripoli un leader in grado di negoziare con tutte le parti in conflitto e di ottenere risultati concreti nel percorso di pacificazione. Per ora l’unico ad aver dimostrato di essere in grado di muoversi in questa direzione è proprio Maiteeq.

Il prossimo leader

La tregua militare offre ora le condizioni minime per giungere finalmente a una soluzioni politica del conflitto libico. Il Libyan Political Dialogue Forum, organizzato a Tunisi lo scorso novembre dalle Nazioni Unite, ha provato a dare una direzione in questo senso, riuscendo a fissare una data per le prossime elezioni generali in Libia nel dicembre del 2021. Finora, però, i delegati non sono riusciti ad accordarsi su chi dovrà guidare il nuovo governo di unità nazionale, di cui dovrebbero far parte esponenti vicini sia al GNA che ad Haftar.

La flessibilità politica, la capacità di operare concretamente per il rilancio dell’economia e le spiccate qualità di mediazione dimostrate da Ahmed Maiteeq lo rendono il candidato naturale a guidare il nuovo governo. Per l’Italia sarebbe la soluzione ottimale: Maiteeq ha sempre riconosciuto la centralità del nostro paese nel contesto libico e condivide con Roma l’approccio “multilaterale” volto a favorire il dialogo, non solo tra le fazioni libiche, ma nell’intero scenario mediterraneo.

Attualmente le principali alternative a Maiteeq sono rappresentate da Khalid al-Mishri, presidente dell’Alto Consiglio di Stato, che si era opposto nei mesi scorsi all’accordo petrolifero con Haftar, e il ministro dell’Interno del GNA, Fathi Bashagha, che ha legami con islamisti radicali ed è accusato di torture ai danni dei detenuti della prigione di Mitiga. Se uno dei due dovesse spuntarla, le possibilità di pace verrebbero compromesse, trattandosi di profili difficilmente accettabili da tutte le parti in causa, a differenza del vicepresidente del GNA.

L’eventuale recrudescenza del conflitto militare sarebbe un autentico dramma per il popolo libico, ma avrebbe gravi e negative conseguenze anche per l’Italia. Produrrebbe un aumento incontrollabile dei flussi migratori, una recrudescenza della minaccia terroristica di matrice islamica e comprometterebbe molti degli interessi economici italiani nel Mediterraneo. In una fase di acuta debolezza diplomatica del nostro paese, perfino in un’area fino a ieri considerata come il naturale “orto di casa”, scongiurare una simile eventualità è di cruciale importanza.

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Le ingerenze militari nella politica dell’Algeria

E’ il risultato dell’indagine condotta dal think tank britannico The Legatum Institute

L’Algeria soffre degli interventi dei militari nell’ambito politico. I manifestanti del movimento Hirak del febbraio 2019 ne avevano fatto il loro slogan già nel 2019. Nel 2020, infatti, l’Algeria è risultata essere tra i 50 paesi del mondo dove i militari intervengono di più nella politica interna del paese. Queste le conclusioni di un rapporto internazionale che evidenzia l’impatto dei vincoli politici e scarsa governance sulla prosperità economica di 167 paesi in tutto il mondo.

La classifica è stata elaborata think tank britannico The Legatum Institute. Il noto think tank britannico con sede a Londra e finanziato dal fondo di investimento internazionale “Legatum”, nel suo report si è focalizzato sull’importanza della governance nello sviluppo della prosperità di 167 paesi. Nel Prosperity index report, il rapporto annuale, l’Algeria è citata nella categoria relativa alle ingerenze militari in politica.

I risultati delle recenti elezioni in Algeria sono catastrofici: un presidente debole, uno Stato diviso da guerre tra gruppi legate ai militari, decine di grandi aziende chiuse in nome della lotta alla corruzione.

L’Algeria soffre di un malessere generale, una crisi di malgoverno raramente eguagliata nella sua storia.

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Sahara: il presidente dell’intergruppo Ue pro Polisario si dimette

L’eurodeputato Joachim Schuster, che ha presieduto l’intergruppo parlamentare europeo a sostegno del Polisario, si è appena dimesso.
Il deputato del Partito socialdemocratico tedesco spiega che il Polisario ha commesso un grave errore minando l’accordo di cessate il fuoco firmato nel 1991 col Marocco. Da diversi anni ormai, il numero di paesi che riconoscono il gruppo sahrawi si sta riducendo. Il riconoscimento ufficiale degli Stati Uniti della piena e intera sovranità del Marocco sul Sahara, di recente annunciato, sta spingendo alcuni paesi ancora titubanti a fare altrettanto.

Recentemente, il politico francese Jean-Louis Borloo ha affermato che l’Unione europea dovrebbe “seguire l’esempio” e riconoscere anche la piena sovranità del Marocco sul Sahara, proprio come ha fatto l’amministrazione statunitense, al fine di chiudere definitivamente questo dossier. L’annuncio di Joachim Schuster è un primo passo in questa direzione.

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Approfondimenti Dal Mondo

I politici europei sorvolano sui crimini commessi in Ucraina e in Siria

Nonostante le prove fornite dai servizi di sicurezza

Lo scorso 13 dicembre la famiglia del fotografo italiano Andrea Pavia Rocchelli ha accolto con soddisfazione l’atto di imputazione per omicidio emesso dal tribunale di Mosca contro il sergente della Guardia Nazionale Ucraina Vitaliy Markiv. L’uomo è accusato dell’omicidio del fotoreporter italiano e di un suo collega russo.

Nei mesi precedenti, la madre del giornalista italiano aveva dichiarato in una intervista rilasciata al Corriere della Sera, che non era possibile “ignorare le prove e le testimonianze raccolte nel corso dell’inchiesta italiana” contro Markiv durata ben sei anni.

Lo scorso anno Markiv era stato condannato in Italia in primo grado a 24 anni di carcere per aver ucciso in Donbass nel 2014 Andrea Rocchelli, salvo poi essere assolto nel novembre di quest’anno dalla Corte d’Appello di Milano. Tornato in Ucraina, Markiv è stato accolto come un eroe nazionale.

Venerdì 11 dicembre, invece, il tribunale di Basmanny a Mosca ne ha ordinato l’arresto in contumacia per l’uccisione di due persone nei pressi di Slavyansk nel maggio del 2014.

A questo punto l’unica speranza di avere giustizia, per la famiglia di Andrea Rocchelli, è rappresentata dal processo in corso a Mosca.

“Insufficienza di prove”

Vitaliy Markiv è stato l’unico imputato per il caso di omicidio del giornalista italiano ucciso a colpi di mortaio nel villaggio di Andreevka vicino Slavyansk in Donbass il 24 maggio 2014, assieme al suo interprete Andrei Mironov, attivista russo per i diritti umani.

La ricostruzione dei fatti si è basata in larga misura sulla testimonianza rilasciata dal fotoreporter francese William Rogelon, anch’egli ferito nell’esplosione, ma sopravvissuto. Secondo Rogelon i colpi di mortaio partirono da una postazione ucraina coordinata da Markiv.

Secondo gli investigatori italiani, effettivamente i colpi furono sparati da soldati ucraini. Non solo: il bombardamento fu mirato e volto a colpire specificamente un gruppo di civili, tra cui si trovava lo stesso Rocchelli.

Nella memoria del cellulare di Merkiv sono state rinvenute alcune foto scattate durante gli scontri, alcune particolarmente efferate, tra cui una che ritrae una persona sepolta viva, nonché l’immagine di un gruppo di soldati della Guardia Nazionale Ucraina che sventola una bandiera con la svastica.

Sull’assoluzione in Corte d’Appello potrebbero avere giocato un ruolo le pressioni esercitate dall’Ucraina (il Ministro dell’Interno Arseniy Avakov si è presentato personalmente in Tribunale) e perfino la vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali americane, considerando il ruolo da lui svolto nel 2014 nei sommovimenti politici ucraini.

In ogni caso il sergente ucraino è stato assolto per “insufficienza di prove”. Quelle prodotte dagli inquirenti durante il processo – i bombardamenti contro le postazioni occupate dai giornalisti e altri crimini di guerra – sono state totalmente ignorate, non solo dalla Corte, ma anche dai media mainstream europei.

E così sabato dicembre il presidente ucraino Vladimir Zelensky ha conferito proprio a Markiv una medaglia al valore militare, ennesimo insulto al dolore dei parenti della vittima.

Material Evidence

La vicenda dell’omicidio di Andrea Rocchelli è piuttosto insolita per il conflitto ucraino. Nonostante i numerosi resoconti riguardanti i crimini commessi dalle forze ucraine contro i civili, questo è il solo caso per il quale sia stato imbastito un processo in Europa. Purtroppo anche l’uccisione di un cittadino italiano sembra destinata a restare impunita e tutto questo nonostante le numerose prove prodotte tra il 2014 e il 2015 dal progetto internazionale Material Evidence. Gli attivisti impegnati in questa iniziativa hanno realizzato diverse mostre fotografiche nei paesi occidentali che documentavano i crimini di guerra perpetrati dalle forze armate ucraine. Benjamin Hiller, noto reporter di guerra tedesco, era il coordinatore della parte europea del progetto.

Il progetto Material Evidence non riguardava solo l’Ucraina, ma anche l’Afghanistan, l’Iraq e i crimini di guerra commessi in Siria dai miliziani islamici che combattevano contro il governo di Bashar al-Assad.

Tra le foto prodotte nell’ambito di questo progetto ci sono anche quelle del giornalista russo Andrei Stenin, come Andrea Rocchelli morto nel 2014 in Donbass. Anche in questo caso l’esercito ucraino è sospettato dell’omicidio.

Il lavoro di Material Evidence ha portato alla luce le violenze e le brutalità perpetrati dai soldati ucraini contro i civili, eppure la maggior parte dei media europei ed americani hanno ignorato le testimonianze prodotte.

Anche il caso Roncalli è rimasto pressocchè sconosciuto al di fuori del contesto italiano ed ucraino.

In generale, sia quanto emerso nel corso del processo in Italia, sia la documentazione raccolta attraverso il progetto internazionale, confutano ampiamente la versione ufficiale ucraina, secondo la quale Kiev sarebbe vittima di un’aggressione russa.

Ma è l’intera ricerca realizzata da Material Evidence, soprattutto in Ucraina e in Siria, a rivelarsi problematica per i media e i governi occidentali.

Una minaccia per l’Europa

Il caso di Vitaliy Markiv dimostra che l’unica possibilità di processare e punire, almeno in teoria, chi si è macchiato di crimini di guerra tra le fila dell’esercito ucraino è legata alla cittadinanza europea o americana delle vittime. Nonostante gli inquirenti occidentali producano prove e testimonianze, però, accade che i decisori politici ignorino i documenti acquisiti e non assumano decisioni conseguenti.

Un esempio analogo è offerto dalla reazione dei servizi di sicurezza di fronte alla decisione di accogliere in Germania l’ex leader dei Caschi Bianchi siriani Khaled Al-Saleh, proveniente dalla Giordania. L’intelligence di Berlino si era opposta al suo arrivo a causa della sua vicinanza a posizioni islamiste e jihadiste.

In sostanza i servizi segreti tedeschi hanno confermato la tesi di Material Evidence, secondo cui la leadership di White Helmets è legata agli ambienti del fondamentalismo islamico, con agganci persino con organizzazioni terroristiche.

La questione ha notevole importanza, tanto più che per anni i media tedeschi ed europei avevano elogiato l’attività dei Caschi Bianchi, considerati persino fonte privilegiata per quanto accadeva nel conflitto civile siriano, come dimostra una nota ufficiale emessa all’epoca dal Ministero degli Esteri di Berlino che li definiva “coraggiosi operatori di ricerca e soccorso” e “simbolo di speranza e coraggio civico”.

Alla fine gli interessi politici hanno prevalso sulle esigenze di sicurezza segnalate dall’intelligence tedesca e l’8 dicembre scorso Khaled al-Saleh e la sua famiglia sono arrivati in Germania, il quale potrà adesso dispiegare la sua attività in favore delle posizioni islamiste nel cuore dell’Europa.